James Bradburne. © OMara

Image

James Bradburne. © OMara

Gli occhi comprendono meglio del cervello

L'ABC dei musei di James Bradburne: «L’ambiente giusto può produrre cittadini onesti e felici»

James Bradburne

Leggi i suoi articoli

«L’ambiente giusto può produrre cittadini onesti e felici»: su questo principio e sulle sue esperienze al Museum für angewandte Kunst di Francoforte, a Palazzo Strozzi di Firenze e alla Pinacoteca di Brera di Milano, dove continuerà ad essere direttore generale, James Bradburne ha elaborato il suo ABC dei musei

A pensarci oggi, sembra che io abbia trascorso tutta la mia vita a occuparmi di musei e a lavorarci, anche se non è proprio esatto. Se mi guardo indietro la mia carriera nei musei ha avuto inizio quando avevo undici anni, e trascorsi quasi tutta l’estate all’Expo ’67 a Montréal. Ancora adesso, cinquant’anni dopo, mi ricordo in dettaglio alcuni padiglioni. Il padiglione cecoslovacco era notevole: oltre alle esposizioni di oggetti d’arte e vetri storici, prevedeva il primo film interattivo con diritto di voto agli spettatori, «Kinoautomat; Diapolyecran», una delle prime mostre multimediali; e un film, «Laterna Magika», in cui attori veri entravano e uscivano in pattini dalla pellicola.

Il padiglione della Croce Rossa era dominato dal battito lento e profondo di un cuore umano, subliminale ma indicibilmente commovente. Altri padiglioni lasciavano il segno in modi diversi: la cupola geodetica di Buckminster Fuller era il tratto caratterizzante del padiglione americano; il tetto immenso di quello dell’Unione Sovietica; il cono di tegole in legno di cedro di Arthur Erikson per le province occidentali; la piramide rovesciata del Canada; un omaggio all’umorismo strambo nel padiglione britannico; le fantastiche sculture erotiche di Jean Tinguely e di Nicki de Saint Phalle che vibravano sul tetto del padiglione francese; il David di Donatello in una installazione di Carlo Scarpa nel padiglione dell’Italia; le piastrelle turchesi in vendita al padiglione iraniano; «Habitat»di Moishe Safdie: tutto era una variazione sul tema conduttore dell’Expo ispirato da Saint-Exupéry, «L’uomo e il suo mondo»(Terre des hommes).

Non c’era niente che non venisse notato: se i visitatori deviavano dai percorsi segnati, e il loro passaggio tracciava nell’erba un nuovo «percorso del desiderio», gli inservienti si limitavano a segnare un nuovo percorso per rispondere al «voto con i piedi» dei visitatori.

Questa attenzione antropologica al comportamento umano, e la decisione di rispettarla invece di contrastarla, mi colpì già allora e la trovai interessante. Le altre mie esperienze all’Expo (il passaporto, il film con diritto di voto, la mescolanza di attori in carne ed ossa e pellicola, la narrazione multimediale) per il momento restarono quali semi che sarebbero fioriti in progetti a venire.

Nel 1984 avevo ormai scoperto che il design tridimensionale mi interessava più della semplice progettazione grafica, e con l’esposizione internazionale del 1986 a Vancouver che si prospettava all’orizzonte decisi di accettare una significativa riduzione dello stipendio e di passare dalla progettazione grafica a quella dell’allestimento delle mostre, ambito in cui imparai che le idee e i messaggi occupano uno spazio reale, fisico; e quando ci sono troppi messaggi tutti insieme, per quanto importanti, essi finiscono per perdere di significato.

Appresi anche la massima fondamentale che «gli occhi comprendono meglio del cervello» e l’importanza di realizzare modelli in scala reale di elementi chiave dell’allestimento, per valutare se sono o no all’altezza delle aspettative del progettista: l’importanza di vedere cosa c’è davvero, non solo quello che si è immaginato potesse esserci.

Dalla mia lunga collaborazione con l’antropologa canadese Drew Ann Wake ho imparato a prestare attenzione a come le persone si comportano e a osservare il comportamento umano con l’atteggiamento distaccato ed esente da giudizi che contraddistingue l’antropologia come disciplina scientifica. In antropologia non conta accettare le pratiche locali e tanto meno sposarle con entusiasmo; al contrario, è importante osservarle con attenzione. E questo, quando si tratta di creare ambienti per l’apprendimento informale, è della massima importanza. Non è utile partire dalla convinzione che l’argomento, sia esso scienza, arte o tecnologia, è così evidentemente utile che l’unica cosa che conta è spiegarlo meglio. Anzi è molto più fruttuoso osservare la gente con attenzione, scoprire cosa conta per loro e creare un ambiente in cui l’apprendimento sia la conseguenza di un’attività già gradita.

Questa visione mi ha portato, in ultima analisi, al ribaltamento di tutta la mia formazione in materia di progettazione e architettura, che era pensata a creare ambienti che costringessero le persone a comportarsi in modi virtuosi. Come progettista avevo imparato che le sedie potevano fare in modo che la gente stesse seduta dritta; come progettista dell’Expo, avevo imparato che le storie potevano essere esaltanti facendo in modo che tutti le ricevessero in un modo immediato, lineare; come architetto, seguendo Le Corbusier e altri, mi era stato insegnato che l’ambiente giusto può produrre cittadini onesti e felici.

Alla fine rifiutai tutti questi presupposti. Imparai che le mostre che contenevano nella loro progettazione la «risposta giusta» restavano inutilizzate, non finite, o più facilmente difettose, se gli utenti cercavano di ricondurle ai propri fini. Dalla ricerca che Drew Ann Wake portava avanti all’Ontario Science Centre nel 1986 scoprii che i puzzle e i giochi catturavano gli utenti molto più a lungo, così a lungo che finivano per tornare più e più volte. Dalle ricerche portate avanti sia dalla University of British Columbia che dalla Simon Fraser University imparai che ragazzi e ragazze giocavano in modo diverso al computer, e che modificando volutamente l’ambiente di gioco e, a volte, il contenuto del gioco, si potevano osservare nuovi comportamenti.

Imparai che il vero obiettivo di una mostra, definito dalla libertà dell’utente di muoversi nello spazio espositivo, è creare il maggior numero possibile di storie coerenti in una cornice complessiva, di racconti non lineari. Non basta creare un contenuto, è essenziale creare il contesto in cui un dato contenuto ha significato. Come ha scritto il Premio Nobel canadese per la letteratura Alice Munro, «Una storia non è una strada da seguire… è più come una casa. Ci entri e ci resti per un po’, vai avanti e indietro, ti sistemi dove più ti piace e scopri i rapporti fra stanze e corridoi, e come il mondo esterno viene alterato se lo osservi dalle finestre», parole che avevano un senso per me in quanto realizzatore di mostre, architetto e scrittore. Dalla narrativa non lineare è bastato un piccolo passo per immaginare ambienti che stimolassero storie multiple con attori multipli e, quasi senza accorgermene, tornare al mio interesse per i racconti orali di anni prima. Quando poi nel 2003 ho conosciuto Carlina Rinaldi e le scuole di Reggio Emilia, quell’esperienza ha portato all’approccio che ha guidato il lavoro a Palazzo Strozzi dal 2006 al 2015, che abbiamo definito «ascolto visibile». Ora, come direttore generale della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca nazionale Braidense, la filosofia che ci guida è racchiusa nel semplice slogan «a occhi aperti» che ricorda il famoso detto di Nelson Goodman che i musei sono «istituzioni per la prevenzione della cecità».

Lavoro in ambito museale da molti anni, dal 1994 in ruoli con responsabilità gestionale e dal 1999 come direttore generale di numerose istituzioni culturali di rilievo. Ognuna di queste istituzioni ha costituito per me una grande sfida, culminata in una trasformazione sostanziale dell’istituzione stessa. E se un lavoro ha successo questo successo non è merito di una sola persona, ma delle squadre ricche di talento e appassionate che hanno accolto i valori alla base del progetto. Ora che mi trovo a guidare la trasformazione della Pinacoteca di Brera a Milano, il progetto è ancora una volta l’espressione di una serie di profonde convinzioni sulla natura della cultura, del pubblico e dei piaceri dell’apprendimento. Queste convinzioni sono state di altri prima di me, di passati direttori come Ettore Modigliani, Fernanda Wittgens e Franco Russoli, e spero che avranno sufficiente forza per dare forma alle convinzioni dei direttori a venire. Come ebbe a dire saggiamente Newton, se riusciamo a vedere lontano è solo perché siamo nani sulle spalle di giganti. Questo ABC è dedicato a tutti i giganti sulle cui spalle noi nani continuiamo a stare.


A
ttenzione: il meno è più. La fisiologia umana si è evoluta per consentire che stimoli inizialmente potenti vengano percepiti come sempre più deboli quando sia trascorso un tempo relativamente breve dallo stimolo di partenza, fino al punto in cui gli stimoli successivi, a prescindere dalla loro intrinseca potenza, non vengono più percepiti. Questa osservazione di carattere generale è facile da riscontrare nelle mostre: un visitatore riesce a rispondere solo a un certo numero di oggetti nuovi. Non esiste un limite assoluto, in quanto sia la natura degli oggetti che quella dei visitatori possono variare; come regola generale, tuttavia, una mostra in cui ci si aspetta che un visitatore trascorra un’ora (trascorsa la quale si insedia la «stanchezza da visita») non dovrebbe prevedere più di 80-100 oggetti significativi.

B
ilancio: massimizzare varietà e coerenza. L’obiettivo di ogni mostra dovrebbe essere aumentare la varietà dell’esperienza dei visitatori, garantendo allo stesso tempo estrema coerenza. Questo significa che più è grande il numero di mezzi espressivi impiegati, più è importante che essi siano organizzati con chiarezza e che sia stabilita una gerarchia chiara per l’esperienza del visitatore: oggetti, testi interpretativi, materiali di approfondimento. Le mostre migliori sono coerenti in maniera spietata e offrono un ricco contesto in cui ammirare l’arte in modi diversi.

C
ultura. Philippe Daverio scrive che «la cultura non è uno spot, ma lavoro quotidiano». Il museo non è un’impresa che fa intrattenimento, non fa parte dell’industria del tempo libero, non offre «edutainment»: fa cultura, ed è un’istituzione per l’apprendimento informale. Il museo aiuta i suoi utenti ad acquisire una maggiore consapevolezza del patrimonio culturale dell’umanità, fondandosi sui valori della creatività, dell’invenzione e della contemplazione, e a partecipare più attivamente al mondo in cui vivono. In un museo le persone possono fare esperienza del fatto che, per dirla con Jonathan Miller, «la vita della mente è un piacere». Non c’è niente di elitario o esclusivo, fa parte del nostro comune retaggio umano: l’accesso alla cultura e all’apprendimento è un bisogno fondamentale e un diritto umano.

D
islocazione/esposizione. Tutto quello che si può vedere su schermo si può vedere anche da qualsiasi altra parte. Uno schermo, se collocato fra l’oggetto reale e il visitatore (che sia realtà aumentata o un iPhone), trasforma l’oggetto reale in un’esperienza sullo schermo, e non può stare in una mostra. È statisticamente probabile che un video, composto da inizio, svolgimento e fine, sia a metà quando arriva un visitatore, che dunque dovrà aspettare che il video riparta dall’inizio. La pratica di aspettare l’inizio dei video contraddice le modalità consuete con cui i visitatori «navigano» in uno spazio espositivo. Con l’eccezione di circostanze accuratamente studiate, in una mostra non si dovrebbero usare video narrativi. I mezzi interattivi, che possono interagire con i singoli visitatori, sono utili per superare molte difficoltà, ma vanno usati con attenzione per stimolare la comprensione delle opere d’arte e non per sminuire l’esperienza dell’oggetto reale.

E
mozioni, la chiave dell’apprendimento. Ricerche svolte nel corso di più anni dimostrano con chiarezza che i musei funzionano al meglio con l’apprendimento affettivo (ovvero associato alle emozioni), e questo significa che l’obiettivo primario di chi organizza una mostra dovrebbe essere creare il maggior numero possibile di opportunità per esplorare, scoprire e condividere con gli altri visitatori. Inoltre, le ricerche hanno confermato che non tutti i visitatori delle mostre vivono l’esperienza allo stesso modo. Alcuni leggono, alcuni preferiscono leggere agli altri, altri ancora toccano, annusano o si limitano a osservare. George Hein ha dimostrato che più modi diversi una mostra sa offrire per fare esperienza dello stesso contenuto, maggiore sarà la soddisfazione generale di tutti gli utenti della mostra. Mettere un’enfasi eccessiva sulla lettura o sulle forme di narrazione calate dall’alto trasmette il messaggio che la mostra è intesa come una scuola, e allontana molti visitatori.

F
inalmente. Il primo pesce. Negli acquari è una cosa risaputa che il visitatore non si ferma a leggere un testo (non importa quanto sia stampato grande) finché non ha visto il suo «primo pesce». In altre parole, se un visitatore decide di andare in un acquario non ritiene di essere arrivato finché non vede qualcosa che corrisponde alla sua personale motivazione alla visita. Lo stesso principio vale per i musei, e induce a collocare sempre i testi introduttivi dopo la prima «vera» esperienza in mostra. I criteri organizzativi di una mostra dovrebbero essere dichiarati al visitatore fin dall’inizio e non dati per scontati, e nemmeno si dovrebbe lasciare che il visitatore li scopra da solo seguendo l’esposizione. E, anche una volta che i criteri sono dichiarati, le varie sezioni dovrebbero essere indicate in modo che i visitatori possano capire, non per mezzo di «codici» che solo i curatori o gli specialisti comprendono (p.es. 2.1.2., numeri di catalogo ecc.).

G
iardinaggio. La misura di una gestione di successo non è tanto l’imposizione del cambiamento, ma il nutrimento e il sostegno alla crescita. È meglio sostituire la metafora della istituzione come macchina, le cui parti usurate e inefficienti vanno rimpiazzate con pezzi nuovi e migliori, con la metafora dell’istituzione come giardino. In un giardino non è che una rosa sia inefficiente, pigra o improduttiva: forse è solo stata piantata nel punto sbagliato. Invece di rimpiazzarla con un più efficiente cactus, spostare l’ombra consentirà alla rosa, e al giardino tutto, di prosperare. Questo è in limpido accordo con il concetto base di Reggio Emilia che «lo scopo dell’insegnamento non è produrre apprendimento, ma produrre le condizioni per l’apprendimento»: in un museo cerchiamo di creare le condizioni per l’apprendimento, sia per il personale che per i visitatori.

H
appy End. Con le mani, con la testa e con il cuore. L’interazione può avere molte forme: interazione fisica, intellettuale ed emotiva. Reggio Children costituisce un’ispirazione costante e sostenere l’apprendimento affettivo, connesso a emozioni forti, è un punto fondamentale della missione educativa del museo. Come dice Carlina Rinaldi di Reggio Children: «L’educazione è appassionarsi insieme. Provare sentimenti insieme. Provare emozioni insieme».

I
nformale, apprendimento. Fuori dalla scuola l’apprendimento si autoinnesca, si autogestisce e si autoalimenta. Nella sua manifestazione migliore l’apprendimento informale crea esperienze «flusso» in cui la persona è inconsapevole di ciò che la circonda, e perde la nozione del tempo. L’apprendimento informale è motivato intrinsecamente, e non è soggetto ad alcuna restrizione: come diceva sempre Frank Oppenheimer, «Nessuno è mai stato bocciato in un museo». Il museo è un luogo privilegiato per l’apprendimento informale, praticato per il piacere intrinseco che può trasmettere.

J
azz. La meta è il viaggio. È importante porsi degli obiettivi per poterne poi misurare il raggiungimento, ma non si deve mai pensare che raggiungere l’obiettivo sia la fine del viaggio. Come l’orizzonte, il vero obiettivo è in costante fuga davanti a noi, e gli obiettivi che ci poniamo sono solo cartelli indicatori verso un mondo migliore, se puntano nella direzione giusta.

K
indergarten per conoscere. Conoscere qualcosa davvero significa essere in grado di usare la conoscenza in un certo modo. Essere semplicemente capaci di ripetere un’informazione (o di trovarla su Wikipedia) non significa possedere una solida conoscenza. Friedrich Fröbel (ideatore dei famosi «doni» o blocchi di legno che ispirarono Frank Lloyd Wright e tutta una generazione di artisti moderni), che definiva il suo Kindergarten pionieristico «una repubblica dei bambini», diceva «Se [le idee] non nascono in questo modo [dall’interazione con gli oggetti] non sono il prodotto della nostra attività mentale, ma solo la disponibilità a comprendere le idee degli altri».

L
eggibilità: se c’è da leggere, che sia leggibile. Tutte le didascalie di un museo dovrebbero essere leggibili alla distanza ideale necessaria per vedere bene l’oggetto esposto e, contemporaneamente, leggere il testo. Sembra un paradosso, ma testi in caratteri grandi spesso riducono il conflitto con l’oggetto, perché i visitatori si allontanano e lasciano spazi di visuale più ampi per gli altri. I testi in caratteri piccoli, specialmente quelli posizionati in basso, indicano ignoranza dell’ergonomia e mancanza di rispetto per il visitatore. I testi dovrebbero anche essere pianamente comprensibili. Scrivere in modo chiaro e intelligente, fornendo informazioni di base a chi ne ha bisogno, in modo che possa leggere, non significa banalizzare; e dare spazio al pubblico non rende una mostra meno intelligente.

M
usei e morale. Tutte le scelte operate in un museo sono scelte etiche: in quale tipo di mondo vogliamo vivere, come vogliamo che la gente si comporti, quali sono le nostre opinioni sui visitatori del museo. L’esperienza museale si fonda sul rispetto, sulla cortesia e sulla compassione: nessuno deve uscire sentendosi uno stupido. Nel 1980 Nelson Goodman ha scritto: «Il museo deve operare come un’istituzione per la prevenzione della cecità per far sì che le opere funzionino. E che le opere funzionino è la missione precipua del museo. Le opere funzionano quando, stimolando lo sguardo curioso, affinando la percezione, risvegliando l’intelligenza visiva, ampliando le prospettive e mettendo in evidenza categorie di significato trascurate, esse contribuiscono all’organizzazione e alla riorganizzazione dell’esperienza, alla creazione e alla ri-creazione dei nostri mondi».

N
arrazione: prima di tutto, la gente e le sue storie. L’antropologo Robert Archibald, già direttore della Missouri Historical Society, un giorno ha detto: «La questione è se davvero sia possibile continuare a raccontare sempre le stesse storie allo stesso modo, e dare per scontato che potremo garantire una qualità di vita decente a chi verrà dopo di noi. Io credo che la risposta sia no. Parte della soluzione è trovare storie nuove che abbiano significati nuovi e implichino nuovi sistemi di valori. Non so quali siano queste storie. E non penso che sia compito dello storico o del museo crearle. Il nostro compito è creare il contesto in cui la gente può creare nuove storie, e poi ottenere per esse un certo livello di consenso».

O
ggetti: il fulcro dell’esperienza museale. Gli oggetti dovrebbero stare in un museo per il loro valore intrinseco, e non devono essere usati solo come illustrazioni. Secondo la celebre frase di Dominique Ferriot, «non c’è museologia senza oggetti». Gli oggetti originali di una mostra possono essere usati in molti modi diversi: come esperienza visiva o intellettuale; come talismano o oggetto simbolico; come illustrazione. È indispensabile che gli oggetti abbiano un valore intrinseco (da soli o in un contesto), e possano svolgere anche un utile ruolo simbolico; tuttavia usare gli oggetti solo per illustrare qualcosa ne svaluta il significato. Se l’unico motivo valido per inserire un oggetto in un museo è mostrare che esiste, tanto varrebbe farvi riferimento in un testo.

P
rego, fate con comodo. L’esperienza più comune in una mostra d’arte è lo spostamento apatico da un dipinto all’altro, con soste che raramente durano più di pochi secondi. Questo non può essere l’obiettivo del nostro lavoro. Il nostro obiettivo è creare le condizioni per cui la gente si faccia coinvolgere da un oggetto, lo osservi più a lungo, con più cura, più attentamente, e grazie a ciò impari a trarre il massimo dalla visita in termini di valore intellettuale, culturale ed emotivo. Per far rallentare le persone si possono impiegare molti metodi: fisici, fornendo luoghi per sedersi; intellettuali, sotto forma di didascalie che incoraggino la riflessione; sociali, con attività e programmi che coinvolgano in considerazioni approfondite su alcune opere selezionate.

Q
uantità non significa qualità. L’arte non è radioattiva, e la gente non viene contaminata semplicemente esponendosi alla cultura. Per questo è un errore credere che il semplice numero dei visitatori di una mostra possa misurarne la qualità. È anzi spesso vero il contrario, perché i grandi numeri possono ridurre la possibilità di apprezzare al meglio le opere e il loro autentico potere di trasformare il visitatore pronto a concentrarsi su un oggetto per un periodo di tempo significativo. Quanto più tempo vogliamo che le persone dedichino alle opere, tanto meno capiente dovrà essere la mostra: non può essere altrimenti.

R
aggi di luce. Di tutti i colori sulla tavolozza di chi progetta un allestimento, la luce è senz’altro il più importante. La luce comunica direttamente con il visitatore, segnala l’importanza dell’oggetto e concentra l’attenzione del visitatore sulle sue qualità. Rende visibili aspetti che altrimenti non verrebbero notati. Louis I. Khan diceva che «l’ombra è solo una luce spenta», e il controllo intelligente di luci e ombre (illuminare un oggetto lo rende vivo; uno sfondo poco illuminato gli dà rilievo; inondare di luce le pareti crea un effetto speciale) è il fulcro della creazione di nuovo valore per gli oggetti di un museo. Colui che progetta le luci è un artista che dipinge con la luce, al servizio degli oggetti e dei visitatori di un museo.

S
ostenibilità. Il museo non è solo un luogo fisico, è un approccio filosofico, basato sulla convinzione che la cultura sia una pratica che dura tutta la vita, non un evento una tantum. Perché l’esperimento sia sostenibile è necessario che le convinzioni che stanno alla base del progetto siano condivise, in larga parte almeno, da tutta la squadra. Una delle sfide più importanti del progetto è la trasmissione orale della cultura del museo. Ogni nuovo membro della squadra deve imparare dagli altri la filosofia che c’è dietro ciò che viene realizzato, e questo rispecchia l’approccio nel suo complesso: imparare significa assimilare nuove informazioni e tradurre queste conoscenze in un nuovo contesto. Solo allora l’informazione diventa conoscenza.

T
esti: una mostra non è un libro. I testi hanno un ruolo indispensabile in una mostra. Tuttavia i testi di una mostra vengono letti in maniera diversa dal visitatore in uno spazio espositivo rispetto a quelli di un libro. I testi in un museo dovrebbero essere brevi e organizzati in pochi livelli chiaramente identificabili: titolo, sottotitolo e corpo del testo «discorsivo». Il linguaggio impiegato dovrebbe incoraggiare al massimo il coinvolgimento intellettuale del visitatore, e ci dovrebbero essere testi speciali dedicati alle esigenze di un pubblico che non ha familiarità con i materiali esposti. I testi di una mostra non dovrebbero soffocare gli oggetti e, dove necessario, si dovrebbero utilizzare altri mezzi per moderare l’impatto visivo di testi troppo lunghi. Paradossalmente i testi (se sono realizzati con caratteri tipografici di grandezza tale da essere leggibili, e se sono scritti con intelligenza) sono il mezzo più «interattivo»: un testo può essere letto alla svelta oppure lentamente, in parte o a frammenti, dalla metà, dalla fine o dall’inizio.

U
tenti e visitatori. L’esperienza di un museo inizia con il rispetto per il visitatore. Essere un visitatore è solo l’inizio. Un visitatore è tale in quanto visita, ma l’utente è tale perché ritorna. Un museo dovrebbe essere alla continua ricerca di nuovi modi per incoraggiare i visitatori che arrivano per la prima volta a tornare. Questo vale per i residenti come per gli studenti che sono in città per un periodo di studio e per i viaggiatori che tornano in città e vogliono sentirsi a casa: la seconda volta a nessuno piace sentirsi un turista.

V
isibile, ascolto: nuove voci in mostra. Spesso i visitatori escono da una mostra sentendosi, nella migliore delle ipotesi, inadeguati, nella peggiore proprio stupidi. Per tradizione i testi di una mostra vengono scritti dai curatori, ma è raro che ne venga dichiarato l’autore, e spesso sono in una terza persona fredda, da narratore onnisciente, quasi le affermazioni di un curatore fossero frammenti di verità assoluta. Alcuni curatori ritengono che sia meglio non dare proprio informazioni, perché informare potrebbe «contaminare» l’esperienza del visitatore. In altri casi i curatori usano un linguaggio specialistico e sostengono che fare altrimenti significhi «banalizzare» o trattare il visitatore come un bambino. E, per quanto un curatore sia sensibile, è quasi impossibile che torni alla condizione in cui non conosceva la sua materia, che è la condizione naturale di quasi tutti i visitatori. Lo spazio espositivo dovrebbe essere arricchito da altre voci, diverse da quella del curatore, che accompagnino le didascalie di quest’ultimo, e da un invito ai visitatori ad aggiungere anche le loro voci alla mostra. Questo approccio si chiama «ascolto visibile».

W
ay of life. Perché lo facciamo? Facciamo tutto questo perché crediamo, in maniera non dogmatica, nella gente e nella sua capacità di apprendere, e nella cultura e nella sua capacità di cambiare il mondo.

X
Sperimentare. Un museo è qualcosa di profondamente sperimentale e le sue collezioni sono il laboratorio principale, anche se molti esperimenti poi avvengono fuori dalle sale del museo. Essere sperimentale significa correre dei rischi (un esperimento che non rischia di fallire non è un esperimento) e soprattutto misurare. Non si può migliorare ciò che non si può misurare. Solo facendo esercizio di autocritica e testando le ipotesi con i risultati ottenuti il museo può scoprire modi nuovi e più efficaci per sostenere l’apprendimento.

Y
Generazione Y. Un museo è sempre contemporaneo: non è l’arte che è contemporanea, i veri contemporanei siamo noi!

Z
eeuw: «Si cambia qualcosa solo rendendola migliore». Il matematico, psicologo e cibernetico olandese Chris de Zeeuw diceva che il vero desiderio di cambiamento è sempre innescato dal desiderio di migliorare. Il museo si deve assumere l’impegno di creare un cambiamento positivo per la comunità di cui fa parte e di trasformare la vita dei visitatori in modo più o meno evidente. Se mai la squadra di un museo pensasse di non poter più migliorare, quella sarebbe la fine del museo.

James Bradburne. © OMara

James Bradburne, 15 novembre 2019 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

ARTPRIDE | Il direttore di Brera prosegue nell'esposizione del suo «Manifesto» personale per una rivoluzione dei musei

ARTPRIDE | Dopo 30 anni di esperienze museali internazionali, il direttore di Brera lancia il suo «Manifesto» personale per una rivoluzione dei musei

Gli occhi comprendono meglio del cervello | James Bradburne

Gli occhi comprendono meglio del cervello | James Bradburne