Gli ultimi fuochi dell’acquafortista Piranesi

Nel quarto volume dedicato ai rami della Calcografia, l’egittomania di un incisore che era anche un disegnatore d’interni

Camino egizio con due grandi figure sorreggenti il fregio da «Diverse Maniere d’Adornare i Cammini» di Giambattista Piranesi
Franco Fanelli |

Il fuoco era una presenza costante e viva nelle botteghe degli incisori e, in parte, lo è ancora oggi. Nel XVIII secolo il fuoco porta a bollore la miscela di allume di rocca, aceto forte, solfato di rame, cloruro ammonico, cloruro di sodio e acqua che dà origine a uno dei mordenti più utilizzati; cuoce sulla lastra la cera, gli oli, i mastici di cui si componeva la «vernice dura» su cui avrebbero agito punte di diverse fogge, ma prima la affumica con la torcia che, in una celebre tavola dell’Encyclopédie, tramuta un garzone in tedoforo dello spirito dell’acquaforte. Fuochi e fumi si levano nelle «Carceri» di Giambattista Piranesi, vertiginosi e ibridi antri, le fucine dove, a partire dal 1745, l’incisore venticinquenne forgia la sua idea tragica dell’Antico.

Ventiquattro anni dopo, però, il Cavalier Piranesi, aveva «guasi lasciato da incidere», scrive il pittore Vincenzo Brenna, intimo dell’irrequieto maestro; la casa studio a Palazzo Tomati presso Trinità dei Monti, affacciata sull’attuale via Sistina, «è ora sì piena di marmi, e antichità (...) candelabri, cammini are sepolcri, e si misti di cose, che chiunque vi entra a vedere esce fuori di testa». Piranesi è a capo di un’azienda che produce a getto continuo stampe ricavate da matrici sempre più spesso affidate agli aiuti, oppure al figlio Francesco. I suoi interessi intellettuali e commerciali ora spaziano dall’attività antiquaria al disegno d’interni.

E il fuoco che arde nelle tavole delle «Diverse Maniere d’Adornare i Cammini» non è più quello delle «Carceri». Fiamma pietrificata, è spesso allusione alla simbologia massonica. E la «bruciatura», che sotto le immani arcate delle Carceri d’invenzione era provocata da un utilizzo del mordente e delle punte tanto irruente quanto pittorico, ora sarebbe un indesiderato problema tecnico. Piranesi sa che un’attività editoriale più mirata alla promozione e al commercio, senza tralasciare l’ossessione culturale di cui era portatore, paga lo scotto di una diversa resa grafica: «Il bulino, e l’intaglio ad acqua forte non ha ubbidito all’incisore, come avrebbe voluto l’architetto, e questi ha meglio amato di lasciare il rame meno perfetto, che di mettere a rischio di restar deformato, col ritornarvi sopra un’altra volta», scrive in un Avviso al pubblico che accederà alle tavole delle «Diverse Maniere».

Non è una excusatio non petita (non era nel suo stile), ma la dichiarazione della necessità di un cambiamento di stile. Il genio dell’acquaforte può ora affidare la traduzione dei suoi sogni alle diligenti e seriali mani dei suoi collaboratori. E questo avviene nella fase più «illuministica» di Piranesi, alla ricerca di una «clarté» che si dispiega tra il 1762 e il 1769, nelle numerose planimetrie e sezioni che illustrano il genio idraulico dei Romani nelle «Antichità d’Albano e di Castel Gandolfo» e in parte nelle «Antichità di Cora». Sono queste le mete di escursioni extramoenia, a costo di non agevoli transiti tra paludi, malfattori e malaria alla ricerca delle origini italiche, etrusche (ed ereticamente non greche) della «magnificenza dei Romani».

Questo settennio chiave dell’attività piranesiana è studiato nel quarto volume di un’opera colossale, avviata 10 anni fa dall’Istituto centrale per la grafica, a cura di Ginevra Mariani e dedicata allo studio e al restauro delle 964 matrici di Piranesi conservate nella Calcoteca del Museo. Se la mostra per il terzo centenario ha una dinamica centrifuga, proiettando Piranesi nella città, lo studio guidato dalla Mariani (Giambattista Piranesi. Matrici incise 1762-1769, 367 pp., ill., De Luca, Roma 2020, € 50,00) è un’immersione centripeta nelle incessanti scoperte nel modus operandi piranesiano sul piano tecnico, metodologico e teorico.

Nel rame affiora lo spirito di un gigante del ’700, studiato nei saggi della stessa Mariani, di Mario Bevilacqua, Domenico Palombi, Giovanna Grumo e Giovanna Scaloni. E le matrici riaprono problemi di autografia. E ancora, nei solchi dei rami si riversano le ombre proiettate dalle assortite antichità della casa studio, ma anche dall’ultima passione, quella per gli Egizi e per la gran messe di ornamenti che quella civiltà poteva evocare, in anticipo sull’egittomania di epoca napoleonica. Illuminista, allora, per modo di dire: un eclettico compulsivo, caso mai, convinto che solo chi non sa suonare rende cacofonica la ricchezza della «molteplicità delle voci, e degli argomenti».

E già Argan aveva scritto di quanto fossero «inchiostrate» le ombre e i solchi nei complessi ornamenti di Santa Maria del Priorato, al cui radicale restauro Piranesi attende proprio in quel periodo. L’eclettismo piranesiano, ovviamente, non avrebbe superato indenne la stagione neoclassica. E già nel 1776 il pittore inglese Thomas Jones, più giovane di lui di ventidue anni, stronca le sfingi e le piramidi con le quali la bottega piranesiana aveva decorato il Caffè degli Inglesi in piazza di Spagna, «più adatte a un sepolcro egizio che a un luogo di conversazione sociale».

Ben presto distrutta, a documentare quella anticlassica e stravagante decorazione restano però due matrici incise tra il 1767 e il ’69. Una di esse risulta rifatta, probabilmente nel XIX secolo. Forse era una di quelle danneggiate, nel 1799, durante il trasloco a Parigi del repubblicano Francesco Piranesi in fuga con il fratello Pietro dalla repressione pontificia con i rami paterni. Quarant’anni dopo quelle matrici sarebbero tornate a Roma, acquisite da Gregorio XVI per l’appena nata Calcografia Camerale.

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