La collezione di Gian Enzo Sperone | 2. IL MERCANTE

Il racconto della straordinaria carriera di un protagonista centrale nell'arte internazionale dalla seconda metà del Novecento ad oggi

Un ambiente interno dell’abitazione di Gian Enzo Sperone in Engadina nella quale è allestita una parte della sua collezione d’arte
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Gian Enzo Sperone, ottantenne, torinese, è il gallerista d’arte contemporanea che da oltre cinquant’anni occupa una posizione di vertice nella scala internazionale del settore, a partire dalla galleria tuttora condivisa a New York con Angela Westwater, ma forse ancor più nelle sue personali gallerie che si sono alternate tra Torino e Roma e ora in Svizzera, a Sent nell’Engadina.

SECONDA PARTE

Vuol dire che avrebbe preferito fare qualcosa d’altro? Per esempio, l’antiquario, l’editore, lo storico dell’arte, il connaisseur?

Ho fatto il mercante d’arte per stare vicino agli artisti e assorbire, conoscere quello che forse è inconoscibile, ma il lavoro pratico di mercante non mi è mai piaciuto. Ho speso troppo del mio tempo a interagire con persone non sempre originali. Intanto l’orologio della vita scorreva.

Eppure questo Le ha dato grandi, grandissime soddisfazioni.

Non mi pento e non rinnego ma devo riconoscere intanto che parte delle mie scelte non passeranno alla storia. L’arte ha molte facce, alcune spigolose ma grandiose, alcune che ci fanno riflettere, altre di puro esercizio accademico.

Penso che ci chiederà di censurare questa frase.

No, sono entrato in polemica con l’organizzazione della fiera Artissima, quando ho affermato che non ero così ansioso di visitarla, perché gran parte delle cose esposte è una fiera della vanità. Lo dicono la mia esperienza e le statistiche. Basta sfogliare una qualunque rivista d’arte specializzata dagli anni Trenta in poi per constatare che tante di quelle opere ieri e oggi, così strombazzate, sono roba destinata a sparire. Diceva Carlo Bo, negli anni Sessanta: «Migliaia di poeti in Italia non fanno del male ad alcuno purché non pretendano tutti di essere pubblicati e recensiti». Comunque le fiere specialistiche oggi risultano noiose e farraginose. Meglio modelli alternativi che esistono già da tempo come Maastricht, Masterpiece, Frieze Masters, Flashback, la Biennale di Firenze dove non esistono muri divisori tra arte romana, Rococò e arte moderna.

Perché l’ha fatto? Lei non ha proprio nulla di cinico. Tutt’al più di scanzonato.

Ho un mio buonismo di origine cattolica per cui non posso negare un aiuto agli artisti più deboli: il «Parcere subiectis et debellare superbos» di Virgilio, l’ho sempre tenuto a mente. Battersi sempre e solo per artisti maggiori destinati a vincere può risultare anche ovvio. Inoltre molti artisti autentici, cioè non derivativi, sono caduti preda delle lusinghe del successo più che della gloria, che è cosa diversa. Certo è difficile resistere alla macchina del consenso che produce soldi a go go. Il catalogo ragionato dell’opera di Balthus è un solo volume mentre quello di uno che non si può che riconoscere come un genio, e cioè Picasso, consiste dei 34 volumi dello Zervos più i sei volumi dell’opera grafica. Non sempre le variazioni infinite ancorché intelligenti su un tema sono necessarie, spesso artisti maggiori si comportano da minori, producendo per il mercato.

Non si sente un po’ troppo spregiudicato per aver venduto cose che sì rispettava ma nelle quali non credeva profondamente?

Su alcune ho avuto, come dicevo, forti riserve sin dall’inizio, ma era mio compito essere aperto alle continue novità: non c’è niente di cinico in ciò. Farò comunque qualche esempio, visto che questo dialogo non deve risultare generico. Nei primi anni Settanta ho esposto un americano Tim Bollinger che presentava una serie di grandi bidoni di lamiera riciclati dall’industria, collegati da tubi che a livelli differenti, secondo la regola dei vasi comunicanti, avrebbero dovuto far circolare l’acqua che contenevano. Non funzionava come doveva e l’acqua debordava ovunque (per fortuna il pavimento della galleria era in cemento). Un’opera modesta.

Allora anche Lei è un pentito.

In parte sì: per essere più preciso posso citare la mostra di Jan Wilson, il cui lavoro consisteva nel dialogare con il pubblico convenuto, su temi prescelti, come in quel caso Platone. Una discussione penosa e velleitaria; alla fine il lavoro prodotto si riduceva a un foglio di carta su cui l’artista avrebbe scritto a mia scelta: «C’è stata una discussione», «C’è una discussione», «Ci sarà una discussione». Ho scelto la prima e pagato mille dollari nel 1971. Un’altra stravaganza, per usare un eufemismo: la mostra di André Caderé, che consisteva in un solo bastone di legno multicolore, in ricordo delle sue visite in casa di privati prescelti. L’idea era di parlare d’arte, della sua in particolare, accompagnandosi con il suo lungo bastone. Pare che il professor Gianni Romano non l’abbia ricevuto avendo subito intuito che poteva trattarsi di una pura perdita di tempo; e ha fatto bene.

Caro Sperone, stiamo forse assistendo a una sua caduta sulla via di Damasco?

Una parte della vita lavorativa forse è andata sprecata. Essendo la storia dell’arte una storia di linguaggi, si è sempre alla ricerca delle intuizioni che possono segnare una svolta. Talvolta, ahimè, più che di svolta si tratta di rivolgimenti che risultano poi contorsioni sotto cui c’è poco, se non nulla. In complesso sono orgoglioso di quello che ho fatto di sostanziale: ho affiancato e promosso in anticipo tutti i movimenti che hanno caratterizzato gli anni Sessanta sino agli anni Novanta: la Pop art americana, l’Arte povera, la Minimal art, l’Arte concettuale, la Transavanguardia. Nella Concettuale sono riuscito a coinvolgere nel 1969 Leo Castelli. Su questo dovrei essere giudicato. Ho realizzato decine di mostre in prima assoluta per l’Italia.

Lei sta mettendo in discussione la fede dichiarata di molti famosi operatori: direttori di museo, critici, intenditori nonché migliaia di seguaci devoti che, estatici, affollano musei, aste e gallerie...

Non sono in polemica con il sistema dell’arte contemporanea; anzi ho detto in mille occasioni che ci sono state e ci sono figure straordinarie. Il mercato è tutt’altra cosa, sempre pieno com’è di insidie e miraggi. Tuttavia se si è appassionati e attenti si può scoprire quel singolo artista destinato a grandi cose e che ripagherà tutti per altri nove artisti risultati deludenti. Per il sistema dei musei di arte moderna, ci vorrebbe un discorso a parte, si sono infiltrati degli incapaci che per il gioco degli specchi deformanti stanno diventando una schiera. Il contagio, si sa, corre veloce.

Lei sta contestando le credenze talvolta settarie sulle quali è fondato un intero «sistema» universale alquanto diffuso.

Ci sono spiriti liberi e altri asserviti alla convenienza, speriamo che l’universo favorisca la crescita dei primi.

Il primo club è molto affollato?

Il club dei cretini è quello che ha più proseliti, ma conosco tuttavia molti artisti e molti operatori straordinari. Del resto, alla mia età, non c’è ragione per professare un pessimismo molesto, che tra l’altro non sarebbe elegante. La vita continua e l’arte come sempre riuscirà a superare quei limiti che prima risultavano invalicabili. Io ne sono la prova: la mia collezione, qui in esame, rispecchia le oscillazioni del gusto nel tempo ed è una festa dell’arte e non un ripiegamento.

L’età! Vorrebbe vivere ancora molto poiché a quanto pare conserva intatto il piacere di scoprire e portarsi a casa un oggetto d’arte.

È una cosa stimolante e consolatoria constatare che gli oggetti, non meno delle persone che pure li hanno creati, rappresentano le sfaccettature del mondo. C’è chi va in escursione sul Monte Bianco o nelle immense pianure della Mongolia per vedere quanto è vario e inconoscibile il mondo. Io per tutta la vita ho cercato di viaggiare all’interno della mia stanza e pur senza la saggezza di Lucrezio che vedeva con compassione gli uomini come formiche agitarsi nell’agone della vita, ho viaggiato poco per diletto o studio perché alla fine mi risultava comunque una forma di nevrosi. Ho però attraversato l’Atlantico per cinque o sei volte l’anno sin dal 1969 per gestire le mie gallerie a Torino e poi Roma e New York. Ho sempre pensato che muovere continuamente il proprio corpo in trasferimenti remoti e veloci possa creare problemi alla nostra anima che magari viaggia a velocità differenti. Pazienza se non ho visto le scimmie del tempio Angkor o sentito l’odore delle paludi o delle lagune sparse per il mondo; mi basta Roma e lo splendore di Venezia. Il Partenone lo posso rivedere quando voglio nei frammenti archeologici sparsi nel mio bosco; vorrei resistere all’illusione che la velocità e l’ubiquità siano veicoli di benessere.

Ha avuto il suo Virgilio?

Ho avuto la fortuna di frequentare tante persone fuori dall’ordinario, che concedendomi la propria attenzione e frammenti di sincerità mi hanno aiutato. Penso al gallerista Mario Tazzoli, che per primo ha esposto Francis Bacon in Italia nel 1957, a Giuliano Briganti e a Goffredo Parise, che mi hanno svezzato quando non ero più da svezzare. Al poeta Gian Piero Bona, che mi ha fatto conoscere alla fine degli anni Cinquanta Walt Whitman, attraverso il quale ho sentito la potenza della cultura americana, Cy Twombly, il geniale pittore di elegie mai svelate. Dagli anni Sessanta ho condiviso con Giorgio Franchetti l’amore per Giacomo Balla e Giorgio de Chirico, da lui forse ho appreso la bellezza del collezionare, che se non diventa un’ossessione è un passatempo di notevole spessore.

Che cosa pensa dell’America? Non deve all’America il suo successo?

La cultura americana è un amore della mia adolescenza. Gli artisti americani che ho esposto, da Rauschenberg a Warhol a Dan Flavin, che non erano conosciuti nei primi anni Sessanta, mi hanno dato enormi soddisfazioni, compreso il successo, e grandi emozioni.

Anche in Europa abbiamo avuto artisti potenti: Michelangelo o un Chillida. Il nuovo mondo...

Il nuovo mondo non poteva e forse non voleva coltivare quella vena di intellettualismo e classicismo che ci ha sempre caratterizzati. Voleva eguagliare e superare l’Europa delle avanguardie (e della discordia). C’è riuscita nel secondo dopoguerra e oggi pratica tristemente una serialità generalizzata e deludente.

FINE DELLA SECONDA PARTE

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