La resurrezione della figurazione

La Biennale di Venezia dello scorso anno l’ha riscoperta; Arte Fiera a Bologna le ha dedicato una sezione. Ora una mostra traccia una geografia italiana della pittura figurativa con 14 artisti tra i venti e i cinquant’anni

Camilla Bertoni |

Resilienza, ovvero tenacità, capacità di resistere e riprendersi dalle difficoltà. È la parola chiave della mostra «Ciò che vedo. Nuova figurazione in Italia», a cura di Alfredo Cramerotti e Margherita de Pilati. A resistere (alle rivoluzioni culturali) è la pittura, quella figurativa, che sbarca alla Galleria Civica di Trento (fino al 24 maggio) dopo quella eterea e trasparente di Gianni Pellegrini, offrendo un panorama costruito attraverso una trentina di opere firmate da 14 autori italiani. Nessun nome storicizzato, varie le provenienze. Esclusa anche la generazione di quei pittori oggi sulla sessantina, tra gli anni Ottanta e Novanta seguiti da Giovanni Testori, come Velasco Vitali, Alessandro Papetti e Andrea Martinelli. «Il nostro pubblico sarà forse destabilizzato da questa scelta che va contro un certo snobismo da parte della critica, quasi facendo utopia al contrario, ma quello che vogliamo fare è restituire la complessità del panorama dell’arte contemporanea con le sue sfaccettature, commenta Margherita de Pilati. Da Art Basel a Miart, e anche ad Arte Fiera a Bologna in altro modo, la pittura, basata anche su un forte virtuosismo tecnico, è in realtà molto presente». «Dopo una lunga indagine sulla pittura figurativa in Italia, spiega Cramerotti, ci siamo resi conto che questa mostra, con il suo taglio realistico e iperrealistico, potrebbe costituire il primo capitolo di una proposta espositiva al quale dovrebbero seguirne altri due: uno per i neoespressionismi, dove la figurazione suggerisce invece che descrivere, e uno dedicato ai rapporti tra la pittura e il digitale. È sorprendente infatti, continua il curatore, che si definisce “eclettico”, e non certo focalizzato solo su questo genere di espressione artistica, quanto la pittura sia un mezzo espressivo non solo resiliente ma anche adattivo, che si configura in sistemi e funzioni molto lontani tra loro. Presentiamo il lavoro di una generazione che sta usando una rappresentazione visiva molto tradizionale, ma con un approccio molto contemporaneo». «Nell’ambiente culturale omnicomprensivo, scrive in catalogo lo stesso Cramerotti, digitalizzato e ad alta risoluzione in cui viviamo, il suo potere seducente rimane inalterato perché costantemente e senza timore, fornisce uno spazio mentale contemporaneo per immaginare e re-immaginare le cose, per “completare” l’immagine, per mal interpretare o interpretare diversamente, ora e durante tutta la sua storia». Prevalenti i soggetti femminili, dove la relazione con il corpo è soggetto privilegiato. Così con Margherita Manzelli (1968), che svela con impietosa delicatezza l’anoressia, con l’erotismo più o meno esplicito di Iva Lulashi, con Vania Comoretti, udinese, classe 1975: nei suoi ritratti, disposti in polittici, le imperfezioni del volto e gli sguardi mettono in luce la fragilità del mondo interiore. Nei dipinti di Romina Bassu (Roma, 1982) si incontra la ricerca ossessiva dei canoni della bellezza estetica, nei ritratti femminili della trentina Annalisa Avancini i difetti sono evidenziati come tratti caratteristici della persona. Elisa Anfuso (Catania, 1982) indaga in maniera allegorica e simbolica il mondo infantile per restituire un ritratto psicologico di se stessa. Più sottile la simbologia di Giulia Andreani (Mestre, 1985) che ribalta il significato di immagini del passato: la sua «Chienne de Combat» (cagna da combattimento) è la rievocazione di un cane, pluridecorato durante la prima guerra mondiale, ampiamente fotografato e divulgato a suo tempo, interpretato qui al femminile con la sovrapposizione di riferimenti a movimenti femministi francesi (le cosiddette «Chiennes de garde») e al provocatorio manifesto «Scum». «Politicamente scorretto» Thomas Braida, goriziano, classe ’82, con i suoi grovigli di corpi femminili distesi sulla spiaggia in un sovrapporsi di situazioni paradossali e surreali. Mentre il torinese Manuele Cerutti (1976) si confronta con citazioni dal mondo dell’arte, come nel caso della «Parabola dei ciechi» di Brueghel, il marchigiano Patrizio Di Massimo (1983) rievoca l’Orlando furioso interpretando l’eroismo in chiave femminile. E ancora la pittura racconta il mondo onirico di Fulvio di Piazza (1967), il fascino per la topologia del vicentino Giulio Frigo (1984), l’iconografia complessa del milanese Oscar Giaconia (1978). Tra le declinazioni più delicate, quella del giovanissimo trentino Andrea Fontanari (1996): recuperando il punto di vista alla Gnoli che ingigantisce microcosmi, il pittore propone un riferimento spiazzante tra le raffinate e policrome porcellane di un servizio da tè e la figura carismatica del loro originario proprietario, Lev Trotzky.

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Camilla Bertoni