Iole Siena, presidente di Arthemisia

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Iole Siena, presidente di Arthemisia

La Signora Arthemisia

Iole Siena ripercorre un ventennio di attività e analizza il «mestiere delle mostre»

Guglielmo Gigliotti

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Iole Siena, presidente di Arthemisia, dal 2000 azienda leader nella produzione e organizzazione di grandi mostre, racconta se stessa, dalla prima mostra a cui lavorò ventenne a quelle future, tra ricordi e riflessioni.

La crescita progressiva di Arthemisia, e il suo assestamento tra le aziende più importanti del settore della produzione e organizzazione di mostre, incontra, dopo vent’anni, come tutti e ovunque, una battuta d’arresto. Come vive questa nuova stagione un’imprenditrice della sua esperienza?

Al di là del naturale sgomento che ci ha sopraffatti tutti, dal primo momento ho vissuto questa crisi come una fondamentale opportunità per ripensare al nostro settore, da anni piuttosto agonizzante, soprattutto in Italia. Il cosiddetto «mestiere delle mostre», quello nato negli anni ’80 sotto grandi figure imprenditoriali come Mondadori o Agnelli, nell’ultimo decennio ha perso la sua essenza, disgregato in mille piccole realtà improvvisate e non professionali, con un’immissione esagerata di «mostre» scadenti se non truffaldine sul mercato, e un conseguente annacquamento dell’offerta.

Oltre a questo, c’è stato un certo disinteresse politico verso la cultura, con conseguente perdita di interesse da parte degli sponsor. Si era insomma arrivati a un punto di non ritorno, con molta confusione, pochi soldi, scarsa visione.
Penso che una battuta d’arresto, per quanto dolorosa, fosse necessaria. Personalmente, lo stop forzato di alcuni mesi è stato molto utile per riordinare le idee, e oggi ho energie rinnovate per andare incontro al futuro, che sarà per forza diverso da prima.

In due decenni avete lavorato a 700 mostre, di cui molte capaci di attrarre tra i 100mila e i 400mila visitatori, coinvolgendo in tutto circa 60 milioni di spettatori, in Italia e all’estero: oltre alle cifre, che cosa sta cambiando nel mondo della produzione di mostre e relativi servizi aggiuntivi?

Il maggior cambiamento lo ha fatto il pubblico, non noi. Quello che «funzionava» 10 anni fa oggi non va bene, non piace. Una grande mostra di Picasso poteva registrare 500mila visitatori, oggi sì e no 80mila. Questo perché le persone vogliono altro, non sono più attratte da grandi carrellate di quadri, vogliono una storia appassionante, vogliono imparare, vogliono poter raccontare quello che gli è piaciuto.

Il nostro lavoro, e qui parlo per Arthemisia, ovviamente, è molto cambiato in questo senso: se prima la maggior parte delle energie era rivolto a ottenere il maggior numero di capolavori, oggi ci concentriamo molto di più sul racconto, sulla resa scenografica, sugli aspetti emozionali e sulla divulgazione. Siamo stati i primi a introdurre l’audioguida gratuita per tutti i visitatori, a fare conferenze gratuite (i cosiddetti «Racconti dell’Arte») per avvicinare il pubblico, e lavoriamo tantissimo affinché tutti, anche le persone meno istruite, possano capire e amare l’arte.

Abbiamo fatto un grande lavoro perché l’arte diventasse più popolare e più accessibile, meno elitaria e noiosa, e credo che ci siamo riusciti. Ai benpensanti (?) dell’arte questo non piace tanto, spesso ci attaccano, ma la risposta è nei numeri e nelle code fuori dalle nostre mostre. Se la gente viene ed è contenta, vuol dire che le scelte sono giuste, non c’è tanta filosofia da fare.


Qual è il clima psicologico in azienda?

Beh… Le aziende del nostro settore sono in affanno. Siamo pressoché fermi da mesi, e lo saremo ancora per parecchio tempo. Noi stiamo provando ad aprire qualche mostra, un decimo rispetto alla norma, ma con grandi incertezze per via del Covid-19, e i segnali internazionali non sono buoni. Le mostre registrano a malapena il 50% degli ingressi normali (anche e soprattutto per le norme di sicurezza), gli aiuti governativi ancora non sono arrivati e non sappiamo quanti saranno, le banche hanno tempi biblici, il personale è ancora in cassa integrazione.

Il vostro successo internazionale è fondato su grandi nomi (dell’arte) e grandi numeri (di visitatori). Le industrie in crisi in genere tentano, per salvarsi, di convertire la produzione: voi affronterete mutamenti di obiettivi e di pratiche, o aspetterete che passi la tempesta?

Se con convertire intende produrre film, spettacoli o altro, assolutamente no: noi continueremo a fare il nostro mestiere, quello che sappiamo fare, le mostre d’arte. Tanto più nei momenti difficili, penso che saper fare bene il proprio lavoro, senza disperdersi su mille fronti, sia un bene.

Sicuramente cambierà la strategia aziendale, ma a dire il vero il cambiamento era già in cantiere da molto prima del Covid-19, proprio perché, come spiegavo, da tempo sentivo nell’aria la necessità del cambiamento. La crisi ha solo accelerato i tempi.


A
vete operato tagli del personale?
Al momento no, nessun taglio. Ma la decisione finale dipenderà dall’andamento del virus e quindi delle mostre, dall’effettiva ripresa del settore (che ancora è ben lontana), dall’entità dei sostegni economici e dal comportamento in ambito internazionale. Il nostro lavoro si basa sulle relazioni nazionali e internazionali, è tutta la macchina che deve rimettersi in moto.

Credo sia la prima volta, nella mia vita professionale, in cui le decisioni non possono essere prese interamente da me, è una sensazione molto strana dipendere da fattori esterni, ma non c’è alternativa adesso.


Arthemisia è un universo che raggruppa molte competenze, dall’ufficio mostre (allestimento, trasporti, biglietteria, bookshop), alla divisione editoriale (cataloghi), dall’ufficio progetti alla divisione didattica. Quale di questi settori sta soffrendo di più? E quale andrà ripensato?

Non c’è un settore che soffre più di un altro. È vero che al nostro interno ci sono molte competenze, ma lavoriamo tutti sullo stesso obiettivo. Sicuramente ci sono alcuni servizi più «esternalizzabili» di altri, credo che sino ad oggi fossimo quasi gli unici ad avere tutte le figure interne. Ma spero vivamente di non dover fare delle scelte, i miei dipendenti sono sempre stati come figli, sarebbe davvero doloroso e difficile.

La programmazione di Arthemisia pre Coronavirus prevedeva quindici mostre per la stagione autunnale 2020. Quante e quali siete riusciti a confermare?

Credo ne prevedesse anche qualcuna di più di quindici, fino allo scorso anno nella stagione autunnale ne aprivamo circa una trentina tra Italia ed estero. Ad oggi abbiamo confermato la mostra «Monet e gli Impressionisti» a Bologna, che stava per aprire a marzo, la mostra dedicata a Botero a Madrid (anche questa in programmazione da molti mesi), e la mostra «Le Signore del Barocco» che aprirà a Palazzo Reale di Milano il 3 dicembre prossimo, un progetto stupendo a cui tengo molto.

Quali sono i momenti più belli da lei vissuti al vertice di Arthemisia?

I momenti in cui abbiamo dato il via a nuove avventure. A un certo punto, qualche anno fa, ci siamo inventati qualcosa che prima nessuno aveva fatto: prendere palazzi privati, renderli idonei a ospitare mostre, e aprirli per la prima volta al pubblico. È stata una grandissima scommessa, poteva andare male, e invece è andata bene, il pubblico ci ha ripagato con entusiasmo delle fatiche inenarrabili. Abbiamo iniziato a Bologna, con Palazzo Albergati, e abbiamo poi proseguito a Verona, a Napoli, a Madrid, fino al più recente Palazzo Bonaparte a Roma.

La fatica prima dell’apertura è enorme, l’ansia anche, ma i momenti di condivisione con le mie persone, le riunioni seduti per terra di notte per mettere a punto le ultime cose, i pianti, le litigate, l’essere stremati pochi minuti prima dell’apertura e poi gli sguardi di intesa in mezzo alle tante persone, ecco questi sono per me i momenti più belli del lavoro, quelli per cui rifarei tutto daccapo.


Tra le 700 mostre alle quali avete lavorato, ce n’è una che le è rimasta nel cuore?

La prima a cui ho lavorato nella mia vita, quando ancora Arthemisia non c’era e io lavoravo, appena ventenne, in una piccola società marchigiana, Ingenia. Era una mostra dedicata al papa Clemente XI Albani, a Urbino. Era la prima volta che partecipavo alla realizzazione di una mostra ed è lì che mi sono innamorata di questo mestiere. Trovavo tutto così eccitante…

Ricordo i quadri fatti entrare dalle finestre con le gru, mi sembrava pazzesco. Nonostante mi occupassi della stampa e della comunicazione, non uscivo mai dalla mostra, pulivo le vetrine, passavo l’aspirapolvere, stavo in biglietteria, facevo di tutto e non mi stancavo di imparare e osservare.


Il rapporto pluridecennale tra pubblico e privato sarà indebolito o rafforzato dalla crisi?

Io penso che sarà rafforzato, ora più che mai è evidente che le cose migliori derivano dall’unione delle forze: né il privato né il pubblico, da soli, possono fare più di tanto.

Le risposte del Mibact, con finanziamenti di ampi settori della cultura, sono soddisfacenti?

Non glielo so ancora dire. Proprio in questi giorni c’è il primo termine per le domande, ma non sappiamo ancora quale sarà la percentuale del risarcimento. Al momento è stato chiesto di presentare le domande basandosi sulla differenza di fatturato tra 2019 e 2020. Vedremo, sicuramente ci contiamo tutti molto. Senza aiuti a fondo perduto credo che la maggior parte delle aziende del nostro settore sarebbe costretta a chiudere.

Che cosa vorrebbe dire al ministro Franceschini?

Di avere più fiducia nelle aziende private che si occupano di cultura. È comprovato che laddove ci sia una buona collaborazione con il privato i risultati siano migliori. Io sono un’assoluta sostenitrice della gestione diretta da parte dello Stato, dovrebbe essere così se tutto funzionasse bene, ma una cosa è la teoria, un’altra la pratica. In Italia non si è ancora pronti per una gestione esclusiva pubblica, mancano fondi, ma soprattutto mancano le persone. Mi piacerebbe molto che ci fosse un migliore dialogo tra il Ministero e i privati, ecco.

Lei ha detto: «Dopo sei mesi il mondo non è quello di prima». Ma quali sono gli errori «di prima» da non ripetere?

L’esagerazione. Penso si fosse tutti un po’ fuori giri nel nostro settore, tutti a correre come criceti sulle ruote, senza una direzione precisa. Il Covid ci ha dato tempo per pensare, per indirizzare meglio le energie e prendere quelle decisioni che probabilmente andavano prese da tempo. Da quanto percepisco c’è un ritorno a misure più moderate, oltre che una scrematura generale, e credo che questo sia un bene.

Un anno fa inauguravate la nuova sede espositiva nel Palazzo Bonaparte, a Roma. Ci visse la madre di Napoleone, dopo la disfatta del figlio. La storia di tutti è fatta di ascese e discese, che in sequenza producono la serpentina dei processi vitali. Che cosa impareremo da questa crisi?

Paradossalmente ho sentito molte persone dire che nonostante le preoccupazioni sono state più felici durante il lockdown. Credo che la scoperta di poter stare bene anche con molto meno abbia influito in maniera significativa. Spero che impareremo ad apprezzare di più quello che abbiamo, il tempo, gli affetti più cari, le piccole cose di ogni giorno, la vita vera. Impareremo anche che non c’è niente di sicuro, che basta un virus a paralizzare il mondo intero, a distruggere le fatiche di una vita. E quindi forse veleggeremo tutti verso l’epicureismo.

L’arte può essere un farmaco per le inquietudini dei nostri tempi?

L’arte ha un enorme potere consolatorio. La bellezza ci avvolge e ci innalza, traccia una linea continua tra il passato e il futuro, ristora le anime inquiete, traccia la differenza tra il mondo animale e quello dell’uomo. L’arte è fondamentale alla sopravvivenza, è una necessità primaria, connaturata all’esistenza umana. Ovviamente sono un po’ di parte, ma lo penso davvero!

Iole Siena, presidente di Arthemisia

Guglielmo Gigliotti, 13 ottobre 2020 | © Riproduzione riservata

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