Perché dovremmo dismettere tutto?

Che ne sarà dell'Università e della scuola nel «nuovo mondo» della conversione telematica

(Pier Francesco Mola attr., Socrate insegna ai giovani la conoscenza di sé» (particolare), Lugano, Museo Civico).
Caterina Volpi |

Sono stata la prima a ritenere opportuna la sospensione delle lezioni tenute in aule strette con centinaia di studenti quando per opportunità economiche si diceva fosse un bene continuare come se niente fosse; come tutti i miei colleghi ho seguito i decreti ministeriali e ho aperto in fretta e furia piattaforme e classi virtuali, sistemi di videoconferenza e firme digitali, ho tramutato la mia didattica frontale in teleconferenze con decine e decine di studenti nelle loro case e io nella mia, davanti a una libreria. Ho fatto tesi in telematica e presto farò esami con google meet.

Nell’emergenza, si dice, ci si deve rimboccare le maniche e andare avanti, bene. Ma mentre i giorni passano e tutti ripetono come un mantra che il mondo dopo il Covid non sarà più lo stesso, che dovremo reinventarci il lavoro, i rapporti sociali, il tempo libero, mi assale l’ansia. Poiché io sono di natura ansiosa e tendo naturalmente a guardare al dopo con una certa apprensione, figurarsi in tempi di Covid.

Ma se proviamo a ragionare con lucidità e freddezza, perché dovremmo correre via dal mondo conosciuto che ci fa improvvisamente così paura? Perché dovremmo dismettere tutto, ma proprio tutto quello che in secoli di civiltà abbiamo costruito? Quale improvvisa e cieca sfiducia nelle capacità umane ci ha assaliti? I luoghi istituzionali della politica, della cultura, della ricerca e della sanità non possono essere chiusi né dismessi, devono continuare a lavorare e ad agire entro le norme costituzionali al più presto, in presenza dei propri rappresentanti.

Così Parlamento, Scuola, Università, Beni Culturali, Pronti Soccorsi e perché no, Cimiteri, devono riaprire quanto prima, si deve trovare il modo di far riprendere ai pilastri della nostra vita civile, sociale e democratica il proprio esercizio, anche simbolico, perché in caso contrario il dopo potrebbe essere quanto mai oscuro. Bisogna che presto si abbiano indicazioni su come rimettersi in moto.

Poiché il mio lavoro si svolge nell’Università, quello che più mi preoccupa è oggi il destino degli atenei italiani, già provati dalla crisi precedente al Covid e alle prese con difficoltà di natura economica da cui solo negli ultimi tempi sembravano potersi intravedere deboli segnali di ripresa. Che ne sarà di noi nel «mondo nuovo»? La rapida conversione dell’Università dove insegno, come di molte altre in Italia, in Università telematica, sembra indicare una possibile strada che l’attuale Governo potrebbe essere tentato di prendere, con l’ovvio vantaggio di risparmiare soldi e idee per un rientro degli studenti in aula nei prossimi mesi e forse, perché no, anni, se il virus non decidesse di togliere definitivamente il disturbo.

I risultati, apparentemente vantaggiosi anche per un eventuale allargamento di pubblico dell’offerta formativa (parola che aborro) anche a giovani residenti all’estero (dunque un maggior guadagno immediato), avrebbe alla lunga distanza esiti devastanti, perché l’Università telematica, come dimostra anche il prestigio internazionale di quelle già esistenti, non può sostituire l’Università come luogo fisico di frequenza e incontro tra studenti e professori. Molti ritengono questo assioma scontato, ma molti altri, più innamorati della rete e del web tra i quali anche mi sembra esponenti dell’attuale Governo, sembrano al contrario intenzionati a prolungare l’attuale esperienza.

Secoli prima che Freud nascesse, Socrate aveva capito che la didattica ha qualcosa in comune con la psicoanalisi (e chi mai potrebbe fare sedute psicanalitiche a distanza se non spinto da disperazione?) e aveva descritto il maestro come un filosofo che guida l’allievo in primo luogo alla conoscenza di sé, e poi a formarsi strumenti e metodi per ricercare da solo la propria conoscenza.

In poche parole insegnare non vuole dire per Socrate lo snocciolamento di nozioni da un discente a uno studente ma l’accensione di un desiderio, ardente e passionale, di conoscenza dal maestro all’allievo. Qualche secolo dopo Giovanni Amos Comenio, vissuto tra la Boemia e Amsterdam negli anni di Galileo e delle sue straordinarie scoperte scientifiche, e in quelli della peste, scrisse testi fondamentali per la didattica dei secoli passati, la Didactica Magna pubblicata nel 1632 e l’Orbis sensualium pictus del 1658. Convinto che l’uomo fosse parte della natura egli riteneva che dalla natura e attraverso un metodo che potremmo definire scientifico l’uomo potesse apprendere tutte le conoscenze necessarie al suo sviluppo. Ecco cosa scrive il pedagogo: «Si apprende nel presentare direttamente le cose sensibili ai sensi, sicchè non possano non essere comprese. Dico, e lo ripeto, che questo è il fondamento ultimo di tutti gli altri.. niente è nell’intelletto che prima non sia stato nel senso».

Lo strettissimo legame tra esperienza sensibile, conoscenza, apprendimento e godimento estetico non era argomento nuovo, lo avevano già scoperto in molti, a cominciare da Galileo Galilei che vi basò il metodo della nuova scienza, e lo aveva ribadito il cardinale Federico Borromeo, che nei suoi diari descriveva il piacere di osservare la natura del proprio giardino mentre era intento a studiare in biblioteca e nella stagione fredda, quando era impossibile uscire fuori nel verde, di osservare i fiori e i frutti riprodotti dal pennello di Jan Brueghel o di Caravaggio. Gli artisti contemporanei del Borromeo e del Cardinale Francesco Maria del Monte ci hanno lasciato splendide testimonianze di questa idea enciclopedica che univa e armonizzava il sapere umanistico a quello scientifico sperimentale, nel segno di una conoscenza basata sull’esperienza sensibile del mondo.

Il Suonatore di liuto di Caravaggio, di cui il cardinale Francesco Maria del Monte possedeva una versione, è una tra le più potenti immagini del potere dei sensi: la vista, l’olfatto, l’udito, il gusto e il tatto sono letteralmente gli strumenti attraverso cui il giovane innamorato canta il proprio amore, anch’esso, come l’arte e la bellezza, vissuto attraverso i sensi. In altre parole senza la sensualità dell’esperienza sparisce il desiderio e con esso la conoscenza, la bellezza, il piacere e la spiritualità. Sparisce anche la memoria, che come ci ricorda Proust si attacca ai sapori, agli odori, alle luci e ai colori dei luoghi e delle cose. L’insegnamento ha bisogno della presenza del professore con la sua particolare capacità di servire da stimolo e modello per gli studenti, con il suo fascino fatto di una comunicazione diretta e indiretta e certamente del suo corpo.

Per quanto poi attiene alla disciplina che più ci sta a cuore, la storia dell’arte, come tutti sanno l’opera d’arte è il frutto di una relazione, è essa stessa relazione, e se ridotta ad un’immagine riprodotta (poiché nessuna delle arti figurative è bidimensionale) non è in grado di comunicare correttamente e mettere in atto un vero rapporto con chi la osserva; misteriosamente, come ha già ampiamente argomentato Walter Benjamin, la sua aurea sparisce e il rapporto si raffredda. Allontanare le opere e allontanare i docenti rende la disciplina anemica, perché studiare la storia dell’arte è ancora una volta un’esperienza fisica, sensibile, che gli studenti devono condividere con il professore in presenza, se possibile, delle opere: si impara ad amare e si conosce soprattutto quello che si vede e si tocca. Ma veniamo a un altro tema, altrettanto urgente. Come tutti noi ben sappiamo, gli anni della scuola primaria e secondaria sono fondativi non tanto per le nozioni acquisite, che pochi ricordano, ma per lo sviluppo di un metodo di lavoro, di un senso critico e della propria personalità adulta a contatto con le istituzioni, messa difronte alle prove, e soprattutto per il centrale rapporto con i propri pari.

Ritenere tutto questo sostituibile con nuovi sistemi d’insegnamento a distanza è il segno di una scuola ormai ridotta a performance di memoria e abilità accessorie. Dunque bene se in questi mesi studenti di ogni ordine e grado sono riusciti a mantenersi in allenamento e in contatto, ma che sia chiaro che bisogna riprendere il prima possibile a frequentarsi, uscire e andare a scuola o all’Università, in biblioteca o al museo, magari tenendosi a un metro di distanza ma guardandosi dentro gli occhi e parlandosi senza schermi. D’altronde il perdurare della scuola a distanza equivarrebbe a un pieno fallimento del mandato che questo Governo e il Ministero hanno di fronteggiare una simile eccezionale e grave situazione.

Tutti si riempiono la bocca dell’opportunità di un grande cambiamento, ma di cosa si tratti nessuno lo sa, tutti dicono che ci aspetta il nuovo mondo ma come sia questo nuovo mondo e quanto sia distante da quello che abbiamo fermato non è dato saperlo, soprattutto non è dato sapere chi disegnerà il nuovo mondo e se esso verrà fuori da una serie di decreti dettati dall’alto o da un’elaborazione critica da parte della società civile (e non incivile) su cui converrebbe cominciare a lavorare tutti. Il mio timore è che, al di là delle vuote parole in omaggio alla competenza e alla sanità pubblica (si pensi a quanti ricercatori sono dovuti emigrare negli scorsi decenni), da questa crisi invece di venirne fuori (come si dovrebbe) con un’istruzione e una sanità pubblica più forti e più fornite di risorse, più libere da lacciuoli burocratici e più fondate sulle competenze, se ne esca invece con un’istruzione e una sanità ancor più fragili, telematiche e delegate sempre più ai singoli individui.

La mia paura è che questo sarà il modo con cui pagheremo la crisi economica ventura, con una lunga quaresima in solitudine, magari rallegrata da serie televisive, serie di lezioni online, serie di visite virtuali nei musei, serie dedicate agli artisti, serie di consigli per sopravvivere a questo insensato fai da te. Per poi risvegliarci in un nuovo mondo da cui non poter più fuggire. Spero che questa volta l’ansia mi porti a sbagliare, mi auguro di venire a breve smentita dai fatti però, come si dice, a pensar male si fa peccato ma...

© Riproduzione riservata Il Suonatore di liuto di Caravaggio Allegoria dell’udito, del tatto e del gusto di Jan Brueghel, Madrid, Prado,
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