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Crolla il petrolio, collassa il rublo: l’arte terrà?

Charlotte Burns

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New York. A fine 2014 il mercato dell’arte appariva in piena salute. Lo scorso anno è stato speso più denaro in arte contemporanea che in ogni altro periodo della storia e gli scambi hanno mantenuto un tasso di crescita costante. Ma sotto la superficie emerge il disagio per gli effetti che il mercato determina sull’arte che lo nutre.
«Il mercato si è mangiato l’arte, dice Robert Storr, rettore della Yale University School of Art. Ci sono ancora buoni mercanti consapevoli dei rischi e artisti capaci di dire di no. Ma siamo in una posizione pericolosa e la questione va posta».
Le aste di contemporaneo a novembre hanno fruttato l’impressionante cifra di 1,66 miliardi di dollari. Nonostante ciò, entrambe le case d’asta hanno perso i loro rispettivi chief executive officer subito dopo le vendite. Sotheby’s deve ancora annunciare il successore di Bill Ruprecht; Christie’s ha rimpiazzato Steven Murphy con Patricia Barbizet, da lungo tempo manager di fiducia di François Pinault.

Garanzie rapaci

Chiunque si troverà a gestire le case d’asta dovrà trovare una soluzione alle difficili relazioni interne: la frenesia per la crescita aziendale ha frustrato gli specialisti, molti dei quali si sentono emarginati dall’aggressiva diversificazione delle società in nuove aree geografiche e nel digitale. Se le società dovessero scegliere di focalizzarsi sui profitti piuttosto che sulle quote di mercato, potremmo assistere a un cambiamento delle loro rapaci strategie nei contratti di garanzia (quelli in cui la casa d’aste, o una terza parte, promette di pagare il venditore a prescindere dal fatto di vendere o no l’opera in questione, Ndr). A novembre Christie’s ha garantito arte contemporanea per un valore di 429,8 milioni di dollari, Sotheby’s per 184,2 milioni, in costosi accordi privati i cui dettagli non sono noti. Intanto, il fanalino di coda è in ascesa: Phillips, ora sotto la guida dell’ex direttore generale di Christie’s Edward Dolman, ha attuato una silenziosa campagna di assunzioni.
Contraltare delle aste sono state le fiere in cui i mercanti hanno dichiarato forti vendite, compresa Frieze a Londra e Art Basel a Miami Beach. Nell’ultimo biennio entrambe sono cresciute e si trovano ora in una fase di transizione. I fondatori di Frieze, Matthew Slotover e Amanda Sharp, stanno cedendo le redini. Intanto, nel 2014, si è dimezzata la dirigenza di Art Basel con la partenza di Annette Schönholzer, che non sarà sostituita, e di Magnus Renfrew, l’ex direttore di Art Basel in Asia.

Sedi troppo prestigiose

La cultura della crescita aziendale ha interessato anche il settore delle gallerie, che in molti casi hanno trasferito le proprie sedi in alcuni tra gli immobili più costosi del mondo. Si tratta di un’anomalia, dice Max Hollein, direttore dello Städel Museum di Francoforte. «La percentuale di metri quadrati dedicati all’arte e al suo mercato nei centri storici di Londra, New York e Parigi è rapidamente aumentata. Si tratta di una tendenza che oltre un certo limite potrebbe essere considerata malsana», dice. La difficoltà, secondo alcuni, è che la pressione per il prodotto sta condizionando la creazione delle opere d’arte. La «business art» era un concetto radicale quando Andy Warhol la inventò ed era ancora una novità quando artisti come Koons, Hirst e Murakami producevano le loro opere di Cultura-Pop-che-Incontra-il-Commercio. Gli artisti di oggi semplicemente non possono ignorarla. Questa è l’«era degli artisti nati per il mercato», sostiene Gregor Muir, direttore dell’Institute of Contemporary Arts di Londra.
Alcuni artisti prediletti del mercato sono stati tentati dalla possibilità di lucrarvi. In molti hanno progetti per «fare 5 milioni di dollari in cinque anni, come fossero rock star», dice un professionista del settore. Altri, molto ricercati, hanno provato invano ad affondare deliberatamente i loro mercati, come Wade Guyton, che ha ristampato copie multiple di un’opera esistente destinata all’asta (l’inkjet «Untitled», 2005, comunque venduto per 3,5 milioni di dollari da Christie’s a maggio).

Commercio di prodotti

La moda per l’arte contemporanea e il desiderio di alcuni collezionisti di creare un mercato di prodotti diventano un problema quando derubano gli artisti del tempo e dello spazio necessari per creare opere significative. «La rapida sopravvalutazione di giovani artisti stravolge il modo in cui la nuova arte viene assimilata e interpretata», dice il consulente artistico Allan Schwartzman, cofondatore di Art Agency, Partners. «Quando il mercato inizia a trasformare in star artisti che non hanno mai avuto una personale, ma le cui opere sono vendute per 600mila dollari in un’asta serale, si crea molta confusione».
Fare denaro con l’arte non è di per sé una cosa negativa, ma «si è sempre cercato di evitare di essere interamente inghiottiti dai propri mecenati, dice Robert Storr. Quando cominci a operare a distanza dal tuo baricentro di artista, allora sei veramente nei guai».
«Non c’è dubbio che i collezionisti hanno preso il controllo del mondo dell’arte. I critici sono passati in secondo piano, dice il consulente artistico Todd Levin, direttore del Levin Art Group. Alcuni acquirenti desiderano solo passare alla storia. Vogliono essere riconosciuti come quelli che hanno fatto le scoperte». Il problema è che i loro gusti sembrano piuttosto miopi. «È un grande, caotico, astratto panorama di individualismo», dice Gabriel Pérez-Barreiro, direttore e curatore capo della Colección Cisneros. «In America Latina il mercato è debole. Negli Stati Uniti invece è dura per gli artisti navigare tra le pressioni e la competizione, soprattutto perché pagano così tanti soldi per frequentare le scuole d’arte», dice.

Metafora del nostro tempo

Con la sua espansione, il mondo dell’arte contemporanea ha subito una maggiore frammentazione. Potenzialmente è un bene: significa che discussioni e confronti diversi hanno luogo simultaneamente. «Non è che non ci siano artisti interessanti che producano opere stimolanti, dice Felix Salmon. È che alcune fazioni sono diventate troppo egocentriche per notarli». Alcuni vedono l’esposizione da Christie’s di opere della serie «Celebration» di Jeff Koons, nella sua sede newyorkese nel 2013 e nel 2014, come una grande, sfavillante pietra miliare di un’intera epoca. Queste opere hanno contribuito a spingere Koons nella dualistica posizione di più costoso artista vivente al mondo e di fenomeno culturale nel corso degli ultimi 18 mesi: internet è invasa da selfie scattati di fronte alle sue sculture giganti. «Queste immagini rappresentano oggetti gonfiabili fisicamente impossibili da sgonfiare, dice Storr. In questo senso rappresentano una metafora del mercato, nel quale la gente sta cercando di creare un modello infrangibile. Nel tempo diventeranno simboliche a rovescio, perché nulla è per sempre».
Forse è solo l’evoluzione di un’era, non la sua fine: per più di 30 anni Koons è stato utilizzato come testimonial dell’arte tardocapitalistica. «Pensiamo che la nostra situazione sia unica, ma ha avuto inizio negli anni ’80», dice il curatore Scott Rothkopf, che ha organizzato «Jeff Koons: una retrospettiva» al Whitney Museum nel 2014. «La gente pensava che la recessione economica del 2008 avrebbe segnato la fine di un’era per il mercato dell’arte, ma non è stato così, dice. Il tessuto sociale, almeno negli Usa, non è cambiato e quest’epoca non finirà fintanto che ci sarà un così ampio riallineamento politico ed economico su scala globale». Questo sconvolgimento potrebbe essere imminente, dice Levin. Egli pone l’accento sul drastico crollo dei prezzi del petrolio e sul collasso del rublo russo, sulla contrazione della produzione industriale in Cina e sulla volatilità valutaria nei mercati finanziari. «Se il contagio dovesse estendersi all’economia americana, nessuno è in grado di prevedere cosa potrebbe succedere, dice. È davvero possibile che il mercato dell’arte abbia raggiunto il suo apice».

Charlotte Burns, 07 gennaio 2015 | © Riproduzione riservata

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