Maurizio Francesconi
Leggi i suoi articoliLa Maison Givenchy ha recentemente annunciato che questo settembre non presenterà la collezione primavera-estate 2016 a Parigi ma a New York e che il direttore creativo Riccardo Tisci ha deciso di coinvolgere l’artista Marina Abramovic nella direzione artistica della sfilata. Non è la prima volta che ci si trova davanti a una collaborazione tra un grande marchio di moda e un artista famoso: il rapporto tra questi due mondi è, storicamente, a doppio senso con gli stilisti che si ispirano alla produzione di grandi nomi dell’arte (rapporto più frequente) e artisti a cui viene chiesto di collaborare attivamente con marchi famosi.
Nel primo caso il risultato sono abiti ormai passati alla storia come quelli di Yves Saint Laurent ispirati alle opere di Mondrian, Picasso, Braque e dei surrealisti o quelli di Mila Schön che si basano sui «tagli» di Fontana, mentre nel secondo, solo per citarne un paio, esempi come quello di Elsa Schiaparelli con Jean Cocteau e Salvador Dalí, che hanno fornito capi che nascono innanzitutto da un’amicizia, o come nel 1969 con Yves Saint Laurent e la sua collaborazione con Claude Lalanne. I casi più recenti poggiano le loro fondamenta su dinamiche che riguardano esclusivamente il mercato.
Con la (quasi) morte dell’haute couture, che oggi conta circa 2mila clienti in tutto il mondo, il prêt-à-porter (e quindi la produzione industriale sia di lusso sia non) ha dovuto prendere in mano le redini del mercato che si è dimostrato affamato di novità e di quel senso di individualità un tempo appannaggio dell’alta moda. La produzione industriale con grandi numeri ha spese enormi e una grande difficoltà, quella di riuscire ad affascinare una quantità sempre maggiore di clienti in tutto il mondo e donar loro un senso di esclusività che per definizione non ha. L’arte è il veicolo migliore; d’altro canto nelle teste di molti «arte» è sinonimo di unicità e quindi è perfetta per il malinteso culturale sul quale si basano queste collaborazioni.
L’arte ha un potere culturale che la moda non possiede ma la moda, da parte sua, ha una grande risorsa, vale a dire la diffusione sicuramente più ampia e capillare e, soprattutto, a un prezzo inferiore. La moda è mercato nel vero senso del termine e il suo potere economico è sconfinato, ma questo mondo fatto di bei capi da indossare è come se patisse un complesso d’inferiorità nei confronti del milieu artistico pur esercitando tutto il suo potere dato dal denaro delle multinazionali che possiedono i grandi brand. Con operazioni di questo tipo la moda eleva dunque il suo status mentre l’artista entra nelle teste e nelle vite di persone che, magari, non si sarebbero mai interessate alla sua produzione, aumentando potenzialmente i fatturati degli uni e degli altri e incrementandone la fama.
Le borse di Takashi Murakami, di Yayoi Kusama o di Richard Prince per Louis Vuitton nascono certo dall’amore del patron Bernard Arnault per l’arte, ma una volta passate dalla passerella alla vetrina del negozio cambiano di significato e si trasformano in un oggetto che sarà disponibile solo per una stagione e che dunque scatenerà le voglie e i bisogni indotti nelle donne di tutto il mondo. Con Marina Abramovic e Givenchy, però, arriviamo a una nuova frontiera perché l’artista serba (1946) non disegnerà nulla per la collezione ma si dedicherà a una, non meglio identificata, collaborazione artistica.
In questo caso si tratta puramente di immagine e del fatto che il suo nome sull’invito a fianco di quello della maison francese servirà per vendere abiti e accessori che con l’artista nulla hanno a che fare, aumentando anche il prestigio della maison. La moda vende e lo fa ancora meglio se è insieme all’arte, come dimostrano anche i numeri dei visitatori (oltre 1,1 milioni) alla mostra di Alexander McQueen al Metropolitan Museum of Art e al Victoria & Albert Museum; è difficile capire chi eserciti il potere o chi tragga vantaggio ma è certo che un mondo asseconda l’altro.
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