L’importanza di chiamarsi Canaletto

LA LAGUNA RACCONTA | Un excursus nella vita del grande vedutista e in quella dei suoi nipoti

Bernardo Bellotto, «La piazza del mercato di Pirna, presso Dresda», Dresda, Gemäldegalerie
Federica Spadotto |  | VENEZIA

Leggere o sentire lo pseudonimo «Canaletto» innesca in me una sorta di meccanismo automatico che mi riporta al primo anno di università e nulla ha a che fare con la storia dell’arte. Giunge, prepotente, il ricordo di un esame universitario indigesto, dove bisognava imparare a memoria le principali figure retoriche con definizione al millimetro.

Data la mia scarsa propensione in materia, escogitai  un metodo ad hoc, associando ciascuna figura retorica ad un nome o ad un oggetto evocativo. Alla sineddoche, «che consiste nel conferire a una parola un significato più o meno esteso di quello che normalmente le è proprio», nella maggioranza dei casi «una parte per il tutto», mi venne spontaneo l’accostamento al celebre pittore.

Quella scelta, oggi, acquisisce un valore paradigmatico per quanto andrò ad illustrare, ovvero che Giovanni Antonio Canal (Venezia, 1696-1768) non rappresenta soltanto il più illustre vedutista del Settecento veneziano, bensì l’emblema del secolo d’oro e il suo nome possiede la stessa valenza simbolica della Ferrari per le auto sportive o dello spritz per l’aperitivo.

Il personaggio (perché la sua fisionomia va ben oltre quella del pittore) testimonia, inoltre, attraverso la sua affascinante vicenda biografica, di possedere tutte le carte in regola per essere equiparato a una rockstar del suo tempo, cui si sommano le alterne fortune del bohémien culminando nello stereotipo degli anti-eroi di Molière.

Sappiamo pochissimo della sua infanzia e prima giovinezza, trascorse, verosimilmente, alla stregua di molti colleghi cresciuti al fianco del padre imparando il mestiere. Bernardo Canal (Venezia, 1664-1744) era infatti uno scenografo, nonché vedutista, che avrebbe a sua volta imitato gli scorci urbani del figlio per trarne qualche guadagno, allorché, prima dei trent’anni, quest’ultimo inaugurava una carriera folgorante. Le sue doti pittoriche erano riuscite a sedurre i collezionisti italiani e stranieri, che giungevano in Laguna per procacciarsi «dei Canaletto» da esibire nelle proprie dimore.

Tale era la brama di possederne uno, che il maestro non si faceva scrupolo di rilanciare sul prezzo, come testimonia una lettera del 1725 indirizzata a Stefano Conti (collezionista toscano che gli aveva commissionato alcuni dipinti), in cui Antonio esige qualche cosa in più come regalo rispetto al prezzo pattuito.

Allo spregio della correttezza si univa un carattere intrattabile, volubile e scontroso, perfettamente riassunto dalle parole di Owen Mac Swinney (1727): «L’amico è stravagante, cambia i prezzi ogni giorno; se uno pensa di avere un quadro da lui bisogna stare attenti a non mostrarsene troppo entusiasti, perché si rischia di essere maltrattati». Ne sortisce il ritratto di un genio capriccioso, consapevole di essere la primadonna del momento e intenzionato a conquistare il massimo del proprio potenziale.

Circondato da emuli ed imitatori, la sua ricetta pittorica andava sempre più ad incidere sul gusto del tempo, che registrava il crescente desiderio di possedere una veduta del grande artista; anche le cornici prendevano il suo nome, a denominare più di un modello o di uno stile: l’artista rappresentava un dogma per chiunque volesse riprodurre i monumenti, i campi, i canali del capoluogo veneto.

Nasceva, quindi, lo stuolo dei canalettiani, pittori più o meno dotati che supplivano l’incapacità di Antonio nel soddisfare le richieste e le velleità di chi «un Canaletto» non se lo poteva permettere. L'artista, peraltro, si era legato dall’inizio degli anni Trenta a uno scaltro mercante inglese di stanza in Laguna, Joseph Smith, che divenne il suo agente esclusivo, monopolizzandone l’intera produzione appannaggio della clientela d’Oltremanica.

Non è dato sapere come una personalità all’apparenza forte ed indipendente come quella del Canal si fosse piegata a una gestione esterna del proprio lavoro. Appare scontato ipotizzare che avvenne per denaro, cui il maestro appare da sempre molto legato. Affidandosi a un influente intermediario di lingua inglese, a lui ignota, risultava molto più facile «piazzare» le vedute agli abbienti gentiluomini britannici, senza perder troppo tempo in fastidiose trattative.

Se sommiamo il fatto che non spiccava per doti di comunicazione e il noto egocentrismo non lo rendeva un interlocutore gradevole, Joseph Smith doveva rappresentare una manna dal cielo. Peccato che la storia ci tramandi un quadro molto diverso rispetto a quanto le nostre deduzioni ci abbiano portato a delineare, ovvero l’immagine di un maturo artista di successo intento a godersi i frutti del proprio lavoro in una fastosa dimora, vestito di broccato e pizzi preziosi.

Nel 1746, all’età di 48 anni, Antonio versa in una situazione economica così precaria da decidere di emigrare in Inghilterra, dove da tre lustri giungevano le sue opere, per intraprendere un’attività autonoma che gli consentisse d’incassare i profitti delle vendite, fino a quel momento trattenuti per la quasi totalità dal citato agente. L’inserimento nel circuito pittorico londinese non fu, inoltre, per nulla scontato, come testimonia l’iniziativa di comunicare ai suoi potenziali clienti, tramite un’inserzione su un giornale, l’arrivo dell’«illustre Canaletto», che tutti credevano a Venezia, secondo quanto riferiva lo Smith.

Quest’ultimo, sebbene privo del suo protetto, continuava a far confezionare vedute canalettiane spacciandole per originali, oppure, per quelle meno riuscite, giocandosi la carta della collaborazione. Il mercante non fu il solo a servirsi dell’illustre cognome; volgendo, infatti, lo sguardo alla lontana Francia, lo sentiamo risuonare usato all’uopo da Pietro Bellotti (Venezia, 1725-Tolosa?, 1805), nipote del grande artista, di professione pittore-menestrello, il cui ambito di operatività si rintraccia nelle sagre e grandi fiere del Nord Europa. Consapevole dell’appeal legato allo zio, era solito annunciare il suo arrivo spargendo volantini in cui si rivolgeva agli «amatori delle belle arti» con queste parole: «Il signor Canaletto, pittore veneziano, invita gli appassionati di pittura a vedere il suo Teatro senza paragoni, composto dalle più belle città d’Europa […] tutte dipinte a olio ed a grandezza naturale».

L’eccellenza di Antonio veniva quindi piegata a strumento di promozione per procurarsi qualche spicciolo bussando di casa in casa, poiché il pubblico drizzava le orecchie al nome «Canaletto», vero e proprio status symbol dell’epoca. Nella migliore delle ipotesi Pietro riusciva a entrare in qualche dimora borghese come maestro di disegno, sempre sotto le ambigue spoglie che gli concedeva il nome di famiglia.

Nel frattempo un terzo Canaletto, questa volta assai dotato, emigrava da Venezia soggiornando presso le maggiori corti europee. Fratello di Pietro e quindi anch’egli nipote di Antonio, aveva appreso i rudimenti della pittura dal grande maestro metabolizzandoli in una personalità artistica peculiarissima, che riuscirà a smarcare la veduta da un ormai logoro cliché. Stiamo parlando di Bernardo Bellotto (Venezia, 1721-Vasavia, 1780) che, invitato a Dresda nel 1747 dall’elettore di Sassonia in virtù dello straordinario talento, non mancò di fregiarsi dell’ormai noto pseudonimo, che rappresentava per il giovane artista un passaporto di notevole importanza.

Il destino volle, tuttavia, che l’eccellenza di Bernardo nella pittura attuasse una sorta di equazione con lo zio nel pubblico del secondo Settecento, determinando un curioso ribaltamento delle parti. Nei paesi di lingua tedesca, infatti, la scomparsa di Antonio era stata annunciata in un modo che risuona singolare: «È morto Antonio, lo zio dell’illustre Canaletto». Ben oltre la sineddoche.

© Riproduzione riservata A. Visentini, «Ritratto di Canaletto», incisione Canaletto, «Veduta del bacino di San Marco», Milano, Pinacoteca di Brera
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