Luca Scarlini
Leggi i suoi articoliEsce il 19 aprile in libreria Le streghe non esistono, autobiografia sui generis di Luca Scarlini, intellettuale originale, impetuoso e proteiforme, da anni collaboratore del nostro giornale. Anticipiamo, per gentile concessione di Bompiani un brano scelto per noi dall’autore su una tragicomica visita scolastica a Palazzo Pitti.
Altro e meno gradevole discorso è invece quando si discute di società o, peggio, della storia di Firenze con il nefario giovine nobil signore Lapo Giuliano Lorenzo Alidosi, che giunge a scuola accompagnato in macchina da un nanico servo siculo che insulta per un nonnulla. Dal primo momento è stato odio tra lui e noi: anche perché lui fa capire a ogni momento la distanza tra noi miseri mortali e lui, erede in linea diretta dei Medici. Ci ricorda tutti i giorni che noi stiamo nel contado orribile della volgarità e del plebeismo per punizione dantesca, essendo senza possibilità di salvezza squallidi e destinati a un sempre maggiore e più deprecabile abominio esistenziale.
Lui invece sta con la tata (come Qui Quo Qua sembra non dotato di genitori, si sono suicidati per la noia delle sue dichiarazioni o li ha uccisi con un’alabarda di famiglia perché semplicemente non erano all’altezza delle sue aspettative) in una villa medicea per respirare l’aria buona, essendo debole di polmoni, ma prima o poi guarirà e sarà da solo, con suoi privatissimi precettori, signore di un palazzo gentilizio in via Maggio, dove tornerà con gran sollievo lasciando alla gleba noi pezzenti miserabili.
I suoi fratelli e sorelle, in numero di cinque, hanno tutti quei nomi altisonanti dell’aristocrazia fiorentina o degli imitatori arricchiti, celebri copioni imitativi del repertorio mediceo, ma sempre troppo precisi nella replica: Manfredi, Cosimo, Neri, Selvaggia, Lucrezia, Anna Maria Luisa, Beatrice. Egli cammina a qualche metro da terra, osservandoci con degnazione sprezzante nei giorni in cui è di buonumore, altrimenti ci insulta senza partire dal via. Il punto è che noi gli rendiamo pan per focaccia e lo offendiamo a nostra volta.
Io almeno una volta gli ho tirato una testata violenta, perché era sinceramente insopportabile a forza di ripetermi che servo ero nato e servo sarei morto, punito con la prigionia in un girone di eterno squallore. A quel punto si è messo a frignare chiamando la maestra, cosa che sanno tutti che non si fa mai quando ci si mena a scuola. Io sono stato redarguito (ma non molto, l’insegnante non lo ama e saggiamente non entra nei nostri scontri se non nei casi di forza maggiore) e noi lo abbiamo lasciato alla sua onta di spione, non parlandogli per giorni.
Si presenta a scuola vestito, sotto il grembiule d’ordinanza, con completi pesanti di velluto bordeaux a cui manca solo la gorgiera e la mazza ferrata. In classe chiede alla maestra di parlare del ruolo della sua famiglia nella storia di Firenze, ma lei lo cancella con un’occhiata. Ha poca passione per la nobiltà perché la madre era inserviente maltrattatissima in una fattoria-villa nel Chianti, dove il giovin signore l’aveva messa incinta e poi costretta all’aborto.
L’odio verso di lui a scuola è diffuso e crescente e assolutamente interclassista, coinvolgendo anche le bidelle che lo apostrofano nei loro idiomi borbonici con maledizioni e malocchi. Durante una attesa gita a Palazzo Pitti fa una scena folle, indicando frenetico tutti i ritratti più alti e meno visibili della quadreria, dicendo: «Quelli sono tutti miei parenti, e voi non siete nessuno, non avete vostri ritratti qui.»
Io e la Lupescu gli tiriamo un calcio preciso per stinco, uno io uno lei. Ma lui continua a delirare, finché un angelo sterminatore, nelle vesti di un corpulento custode del museo, plebeo anche lui ma versione sanfredianina di Caronte, guida agli inferi pittorici dall’eloquio dialettale, lento e spietato, interrompe lo sproloquio, chiedendo con voce roboante e parole scandite: «E come la si chiamerebbe ella?». All’arrivo del cognome segue un’espressione di scorno, in cui le frasi risonanti hanno il suono di pernacchie.
«Ella sotto i Medici avrebbe fatto il servo, il lacchè, se aveva fortuna, e se sapeva ben vendere le sue grazie, il paggio. Si vede che la su’ famiglia, se li ha fatti davvero i quattrini, ché ella mi sembra più che altro un mercante di bugie, gl’ha fatti dopo, sotto i Lorena, come tutti i peggiori voltagabbana in riva all’Arno, o peggio coi Savoia. In questa galleria o agli Uffizi la su’ famiglia la ’un c’è proprio perché in quell’epoca la ’unn’esisteva. E se lei l’è parente de’ Medici, io sono il figliolo illegittimo d’i’ papa e ora mi metto a dire messa.»
Lapo Giuliano Lorenzo cade a terra in preda alle convulsioni, come un demone messo al tappeto da un esorcista efficace. La maestra deve faticare non poco a rimetterlo in piedi e a convincerlo a venire via, mentre sempre più imbizzito, offeso nelle sue smanie nobiliari, insulta il custode, che non gli risponde e lo guarda con compassione.
Io capisco di colpo perché molti dei bambini appartenenti alle altolocate famiglie fiorentine che vedo d’estate nei bramati soggiorni al mare mi sembrano sempre troppo in posa, come attori di uno sceneggiato. Quando, vestiti di tutto punto per andare all’esclusivo club del golf, da cui io sono ovviamente escluso, mi guardano male per esprimere il loro dispregio ostile nei confronti della mia patente identità plebea, si comportano da maldestri ricchi nuovi. Come si dice in gergo ’n’i contado: pidocchi rivestiti. Forse anche loro al tempo dei Medici, come i miei avi, avrebbero avuto ruolo umile e servile: quindi quei manichini stanno solo recitando.
Tiro un sospiro di sollievo, ormai è chiaro che comunque il museo permette a tutti di scordare la propria posizione sociale. Il ritratto di Cosimo III malato di vaiolo mi parla infatti assai più dello stolto blaterare di Lapo Giuliano Lorenzo. Ora cammino io a cinque metri da terra, mentre mi incanto davanti alla crudele Giuditta di Cristofano Allori, in cui il pittore si raffigura con la testa mozzata nelle mani della crudele e sadica regina plebea Mazzafirra, sua modella e dominatrice.
Nel frattempo fisso con anche troppa soddisfazione il nobilastro fulminato e atterrito dal sacerdote della terribile divinità della Storia. Lo fantastico decapitato dal custode, travestito con il costume di Giuditta che gli va strettissimo, lordo di sangue fin sui capelli di una lunga parrucca corvina, con un’accetta in mano e il sorriso assassino a segnalare che ha eliminato finalmente il truce nemico. Il sorriso assassino della Mazzafirra mi chiarisce un’idea che finora era soltanto una vaga costellazione di pensieri, ossia, che l’Arte non ha paura della ricchezza, anzi la sfida.
I vari feudatari in ritardo che credono di poterne essere padroni sono destinati a giusti quanto clamorosi contrappassi. E io tra i quadri e le statue non devo dichiarare il mio censo o dare spiegazioni sulla mia famiglia. Forse è per questo che mi sento sempre così tranquillo nei musei, dove nessuno chiede e domanda.
Le streghe non esistono, di Luca Scarlini, 192 pp., Bompiani, Milano 2023, € 16,00
© 2023 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani
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