Dal 7 ottobre al 4 febbraio 2024 Palazzo Strozzi presenta «Anish Kapoor. Untrue Unreal», a cura di Arturo Galansino, direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi. La mostra, ideata e realizzata insieme all’artista (Mumbai, 1954), propone un percorso tra monumentali installazioni, ambienti intimi e forme conturbanti, creando un originale e coinvolgente dialogo tra l’arte di Anish Kapoor con l’architettura di Palazzo Strozzi.
Il testo che segue, Anish Kapoor in conversazione con Arturo Galansino, è tratto dal catalogo che accompagna la mostra.
Il tuo rapporto con l’Italia ha una storia lunga e intensa, che ha visto la realizzazione di importanti progetti in diverse città, tra cui Napoli, Roma, Milano e Venezia. Ora Firenze ospita questa mostra così significativa. Puoi descrivere il tuo legame con il nostro Paese?
Come hai detto, ho un lungo e intenso rapporto con l’Italia. In questo Paese percepisco un forte legame tra vita quotidiana e cultura, proprio come quello con cui sono cresciuto in India. L’altro giorno stavo passeggiando a Venezia e ho notato un’immagine della Madonna sul fianco di una chiesa. Mi è venuto in mente che i Paesi protestanti dove ho trascorso buona parte della mia vita hanno bandito il femminile e trasformato la società in una gerarchia maschile. Il Cattolicesimo italiano si aggrappa invece al femminile come presenza psichica. Questo concetto mi tocca profondamente.
In passato hai lavorato in contesti storici fortemente caratterizzati, come i giardini di Versailles, Houghton Hall e Palazzo Manfrin, quest’ultimo scelto anche come sede della tua fondazione veneziana. Tuttavia, è la prima volta che ti confronti con Firenze e con un edificio del primo Rinascimento come Palazzo Strozzi, noto per il suo rigore, la simmetria e l’essenzialità. Considerato il tuo rapporto profondo con l’architettura, in che modo questo edificio, simbolo della cultura umanistica, ti ha ispirato nella scelta delle opere da esporre? E poi, come interagisce con Palazzo Strozzi e la tua storia, «Void Pavilion VII», la nuova installazione creata per il cortile, il cui esterno richiama la struttura delle facciate del palazzo?
Palazzo Strozzi è, come dici, simmetrico. La successione degli ambienti è strutturata e rigorosa. Fare una mostra in queste sale non è facile. Troppo ordine distrugge il modo in cui l’opera può interagire con lo spettatore. È stato quindi necessario interrompere l’ordine delle sale, collocando i lavori in maniera da creare percorsi alternativi attraverso l’edificio. «Void Pavilion VII» è una struttura formale che fa rima con il palazzo. È un piccolo edificio realizzato per contenere il vuoto o l’oscurità, per dare spazio al non formato o al nascosto. Un luogo per l’unheimlich: forse in questo senso l’opposto di ciò che intendevano i costruttori di Palazzo Strozzi.
Esplori spesso i temi del dualismo e dell’opposizione, come ad esempio interno ed esterno, concavo e convesso, ordine e caos, naturale e artificiale. Nel tuo lavoro può esserci un’idea di sintesi di questi contrasti o addirittura il loro superamento?
Viviamo in un universo di opposti: giorno e notte, maschile e femminile, positivo e negativo, vita e morte. Anche il nostro universo psichico, come sappiamo, è fatto di opposti. La mia avventura nell’oggetto mi ha portato alla convinzione che tutti gli oggetti risiedano in una dicotomia materiale/immateriale.
La tua pratica artistica tende spesso alla ricerca della perfezione formale, puntando alla scomparsa della «mano dell’artista» e alla sublimazione della componente materiale e trasformando le opere in oggetti eterni, quasi senza tempo, appartenenti a un’epoca preculturale e preantropologica. Allo stesso tempo, ci sono tecniche e materiali utilizzati nel tuo lavoro che fanno parte della tradizione artistica. Qual è stata la sfida nel portare certe caratteristiche e peculiarità verso nuovi orizzonti espressivi? E com’è l’interazione con i nuovi materiali, alcuni assolutamente all’avanguardia, che contraddistinguono la tua produzione più recente?
Marcel Duchamp ha proposto l’objet trouvé. Io propongo una condizione precedente: l’oggetto non fatto, autoprodotto, automanifesto. Prima del pensiero, prima della cultura. Una complessa finzione dell’oggetto: il fatto non fatto. Fai riferimento al materiale più nero dell’universo, ovvero a un materiale tecnologico più nero di un buco nero, in grado di assorbire il 99,9 % della luce. Il «Quadrato nero» di Malevič è, come diceva lui stesso, un oggetto quadridimensionale, con tre dimensioni note e una ignota. Le due grandi invenzioni del Rinascimento sono la prospettiva, così come la conosciamo, e la piega, ovvero il tessuto ripiegato nella pittura del primo periodo rinascimentale: il corpo e l’essere. Se applicato su una piega, questo materiale nero la rende invisibile. La porta oltre l’essere. Come Malevič, trasporta l’oggetto nella quarta dimensione. Un trucco, un’illusione, una finzione. Sì, ma tutta l’arte è finzione. Come sappiamo, gli artisti fanno proposte mitologiche, non semplici oggetti. Portare un oggetto al di là dell’essere è un’ambizione elevata, ma è questo il mio obiettivo.
«Untrue Unreal» è il titolo che hai scelto per la mostra a Palazzo Strozzi, invitandoci a esplorare un mondo dove i confini tra vero e falso, realtà e finzione, si dissolvono, aprendo le porte per la dimensione dell’impossibile. Questi temi sono da tempo fondanti e ricorrenti nel suo lavoro. In questa occasione e in questo particolare momento storico assumono dimensioni e significati nuovi e differenti rispetto al passato?
Sì, in questo momento di crescita dell’ultranazionalismo a livello mondiale, la finzione politica si spaccia per reale ed è cieca nei confronti della storia. Il gioco reale/non reale e vero/non vero è un topos del nostro tempo. Qui in Italia e nel mondo. Oserei dire che abbiamo perso il contatto con la realtà umana e con i nostri compagni, compresi i cento milioni che vagano per il pianeta come rifugiati. Tutto questo nel cieco indottrinamento degli ultranazionalisti. «Untrue Unreal», non vero e non reale, oggi. Il ruolo degli artisti, secondo me, è quello di guardare all’ignoto o al semisconosciuto. Non ho nulla da dire. La mia verità è confidare in ciò che non conosco o conosco solo in parte. In questo, il non vero/non reale è una guida.