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Vittorio Sgarbi
Leggi i suoi articoliNessun appello delle anime belle contro la mostra di «Giotto, l’Italia» al Palazzo Reale di Milano (cfr. lo scorso numero di «Vernissage», pp. 14-15), con 9 importantissimi polittici e pale d’altare prelevati dai loro contesti museali e geografici, per una parata insensata rispetto a una «vera conoscenza fondata sulla innovazione del sapere, cioè sulla ricerca».
Si tratta evidentemente di uno «sradicamento selvaggio dal contesto delle opere d’arte, considerate alla stregua di meri prodotti da commercializzare», come lamenta la stessa curatrice Serena Romano, in contraddizione con quella parte, ignara di se stessa, che firma lettere al Ministro contro lo spostamento di opere d’arte (ben meno importanti dei capolavori di Giotto) dai musei per mostre. Nessuna protesta sull’inverosimile trasferimento, dopo averla imbragata come un astronauta, della lastra del «Tuffatore», rarissima e fragilissima testimonianza della pittura greca del V secolo, sradicata dal contesto naturale di Paestum, nel cui museo è come la «Gioconda» al Louvre.
E soprattutto bocche cucite dei 300 coraggiosi e coerenti firmatari che, a seguito di Daniele Benati, poi rinviato a giudizio per l’esportazione clandestina di un capolavoro di Annibale Carracci, mi aggredirono brutalmente per lo spostamento di 500 metri della pala dell’«Estasi di santa Cecilia» di Raffaello dalla Pinacoteca di Bologna a Palazzo Fava di Bologna.
Ora il dipinto, per desiderio di Sylvia Ferino, è esposto alla Reggia di Venaria (nella mostra «Raffaello. Il sole delle arti»; cfr. lo scorso numero p. 35, Ndr). Vieppiù «sradicato» dal contesto bolognese, oltre che dal suo museo.
Dove si sono nascosti gli sgrammaticati indignati Ginzburg, Prosperi, Romano e i dissociati associati De Marchi e Caglioti? Distratti? Convertiti? Esauriti? Semplicemente, non sono interessati alla tutela delle opere d’arte, ma alla difesa della loro categoria di indecenti docenti, che legittimano per sé ciò che non ammettono per altri. Costringendomi a una guerra senza esclusioni di colpi che conferma il giudizio sprezzante di Zeri contro i cattedratici che censurarono due nature morte della bottega del Cavalier d’Arpino in una sua mostra.
Un episodio vergognoso dell’arroganza del potere universitario, che si è ripetuto oggi contro di me e contro una mostra degnissima e apprezzatissima, senza concessioni al mercato.
Perché la tomba del Tuffatore sì, per una mostra senza senso, e i dipinti all’Expo, per una mostra a ingresso gratuito, concepita con Carlo Petrini e Farinetti, no?
Perché il «Polittico Stefaneschi» sì, e il De Chirico metafisico, mai visto, della collezione Cerruti no?
Perché il Giotto della Pinacoteca di Bologna sì, e la «Santa Cecilia» di Raffaello no?
E se la stessa pala va in mostra a Bologna non va bene, ma se va a Venaria Reale nessuno batte ciglio, nessuno scrive appelli al Ministro, nessuno raccoglie firme?
E Carlo Ginzburg sta in letargo (e in pensione) a Bologna. Qual è il criterio che muove l’insensato blaterare, a intermittenza, di questi falsi maestri?
In compenso alcuni sono molto attivi nel favorire la vendita di capolavori italiani ai musei americani. È il caso di Tomaso Montanari, moralista per gli altri ma balbettante quando cerca di giustificare il suo coinvolgimento con perizie per opere italiane, di incerta o indefinita provenienza, vendute all’estero, esibendo documenti farlocchi che nulla dimostrano.
Montanari copre la sua infedeltà allo Stato non con regolari certificazioni del Ministero (che evidentemente non ci sono), ma con una buffa e irrilevante carta di una presunta «agenzia internazionale», Art Loss Register, richiesta (a pagamento) dallo stesso mercante che ha venduto la magnifica scultura del supposto «Endimione», in realtà «Adone», di Antonio Corradini, uno dei più notevoli artisti del Barocco italiano, al Metropolitan Museum di New York.
Il «documento» è semplicemente una tentata legittimazione postuma dell’acquisto, che conferma i rapporti di Montanari con il mercante, in seguito alla (compensata) attribuzione dell’opera. In realtà esso comprova, senza alcuna seria indagine, l’infedele e approssimativa ricostruzione sulla proprietà e provenienza dell’opera, incorrendo in un evidente falso: il venditore, Ottavio Fabbri, non poteva possederla nel 1950, una data di comodo per confondere le acque rispetto al momento reale (e certamente più tardo) dell’esportazione.
Nel 1950 aveva infatti 4 anni, essendo nato nel 1946. L’opera apparteneva a suo padre, il grande collezionista, editore e marchand amateur Dino Fabbri, che non l’aveva certamente comprata prima del 1950, in tempi duri e difficili per l’Italia e anche per il collezionismo d’arte. E comunque troppo precoci per l’interesse della critica e del mercato sulla scultura del Settecento veneziano.
E poi, comunque, dov’era l’«Adone» del Corradini prima del 1950? Questo non è detto, e non è chiarito. Ma certamente in Italia. La legge che tutela il patrimonio artistico risale al 1939. E non c’è una moratoria o una prescrizione per le esportazioni non autorizzate dal Ministero dei Beni culturali. Il documento esibito da Montanari è dunque irrilevante. Voglio aggiungere, in ogni caso, e per consolazione, che non è un gran danno che il capolavoro di Corradini sia a New York. In Italia, grazie alla sensibilità di Montanari, rischierebbe di non essere visto da nessuno.
Vittorio Sgarbi è lo storico dell’arte più popolare d’Italia e, senza nulla togliere alla competenza di tutti gli altri, è il più attivo nel produrre mostre, libri, articoli e conferenze. La sua operosità iperattiva, insieme al successo che riscuote il suo talento comunicativo, irrita alcuni suoi colleghi e provoca solenni dichiarazioni pubbliche a lui avverse. Sgarbi non solo ha dimostrato che le accuse a lui rivolte sono infondate, ma che i suoi stessi accusatori non sono esenti da peccati senza incorrere in reazioni denigratorie come succede a lui. Sgarbi è un opinionista del nostro giornale ed è ragionevole che qui esponga le sue argomentazioni. Nei giorni scorsi un soprintendente di primissima qualità ci spiegava di aver concesso il prestito di un Raffaello alla mostra di Venaria e che l’Istituto prestatore riceverà 30mila preziosissimi euro che altrimenti non avrebbe. Tutto ciò è legittimo e comprensibile e perfino utile, ma immaginiamo se vi fosse stato coinvolto Sgarbi. Sarebbe stato oggetto di una indignata lista di proscrizione e di protesta. Ma perché due pesi e due misure? (Carlo Accorsi)
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