Paola Caridi
Leggi i suoi articoliNon era sopravvissuto solo alla guerra civile che aveva insanguinato il Libano per circa quindici anni, fino al 1990. Il Palazzo Sursock era passato, tutto sommato, indenne lungo la ricostruzione di Beirut dopo la fine di un conflitto così sanguinoso da avere, tra le sue vittime, la stessa città. La trama urbana della Beirut levantina, ottomana e poi sotto mandato francese, era stata prima segnata dalla guerra strada per strada, casa per casa, e da quella linea che divideva il principale fronte.
Il Palazzo Sursock, a est della «linea verde», era sempre rimasto aperto. E chiuso lo era stato, ben oltre la fine della guerra e la contraddittoria ricostruzione urbanistica targata Solidere, solo perché era necessario risistemare una delle ville più belle non solo di Beirut, ma dell’intera area. Tra le poche case storiche rimaste in città, salvate dalla speculazione immobiliare che aveva praticamente distrutto la memoria architettonica di Beirut, Palazzo Sursock era diventato il principale museo e collettore d’arte, grazie al suo proprietario, Nicolas Sursock, che nel 1961 lo aveva regalato alla sua città come centro d’arte e di cultura. Un gesto che rendeva conto della stessa storia della famiglia Sursock, una delle più importanti di tutto il Levante, dinastia di mercanti greco ortodossi che, già a partire dal XVIII secolo, avevano fondato la loro fortuna sulla lavorazione della seta (delizia e poi croce per l’intera economia del Grande Libano), per poi spostarsi su altri settori, compresi gli investimenti bancari, in tutto l’Impero Ottomano e nelle principali città dell’area, da Istanbul ad Alessandria d’Egitto, fino ad arrivare a Manchester e in Italia.
D’altro canto, la grande famiglia Sursock era imparentata con gli aristocratici di mezza Europa. Passato indenne, o quasi, attraverso la guerra civile e la ricostruzione di Solidere, Palazzo Sursock non ha, però, resistito all’onda d’urto del più grande disastro che il Libano contemporaneo ricordi: 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, stoccate malamente e da anni in un magazzino del porto di Beirut, esplodono dopo ore e ore di combustione. E alle ore 18.07 del 4 agosto 2020 il cielo della capitale libanese viene squarciato da un fungo che muta repentinamente di colore, a seconda dei materiali che l’immane onda d’urto travolge. Almeno 235 i morti, settemila i feriti, 300mila gli sfollati, quasi 80mila appartamenti distrutti. È la stessa faccia di Beirut a cambiare. E Palazzo Sursock, nella parte settentrionale del quartiere altoborghese di Ashrafieh, viene toccato pesantemente dall’onda d’urto.
Le immagini del prima e del dopo l’esplosione (la più grande non nucleare nella storia del pianeta) testimoniano di una storia, quella delle grandi stanze della villa a tre piani, trasformata in macerie. Che cosa fare? E soprattutto, quanto è rilevante riaprire un museo d’arte (non solo contemporanea) in un Paese dolente, nel pieno di una profondissima crisi economica, sociale, politica? La memoria, la memoria di Beirut è la risposta: in una città che ha perso buona parte del suo patrimonio architettonico, il recupero di Palazzo Sursock è il «segno della speranza» per superare il trauma collettivo, come ha detto Karina El Helou, la direttrice del museo che ha riaperto i battenti lo scorso 26 maggio.
Il recupero di Palazzo Sursock è anche la dimostrazione che le collaborazioni internazionali possono avere ottimi e rapidi risultati. E queste ragioni, messe assieme, sono state alla base del premio che «Il Giornale dell’Arte» ha deciso di assegnare a un’esperienza artistica, museale, culturale tra le più rilevanti del Medio Oriente.
Il restauro di Palazzo Sursock è infatti l’impegno più importante dell’iniziativa condotta dall’Unesco, «Li Beirut», un appellativo che richiama alla memoria la più importante canzone di Fayrouz, l’icona musicale per antonomasia della cultura collettiva e popolare libanese. È un impegno su cui hanno convogliato finanziamenti e professionalità molti partner, dall’International Alliance for the Protection of Heritage in Conflict Areas (Aliph) al Ministero francese della Cultura. Con un ruolo, però, di primo piano da parte dell’Italia. È, infatti, attraverso l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) che Palazzo Sursock ha ottenuto il principale finanziamento, un milione di dollari frutto di un memorandum di intesa firmato nel maggio 2021 dall’allora viceministra degli esteri Marina Sereni e dalla direttrice dell’ufficio Unesco di Beirut, Costanza Farina, funzionaria internazionale dalla lunga esperienza nell’area e, dunque, dalla conoscenza profonda delle sue criticità.