Giuseppe Calabi, Andrea Buticchi
Leggi i suoi articoliIl caso
Nel 1984, Vanity Fair ottenne dalla fotografa Lynn Goldsmith una licenza per l’uso di un ritratto del 1981 del cantante Prince, e incaricò Andy Warhol di ricavarne un’illustrazione. Warhol realizzò quindi «Purple Prince», insieme ad altre 14 versioni, la «Prince Series». Nel 2016, alla morte di Prince, la Andy Warhol Foundation for Visual Arts (AWF) licenziò l’uso di un’altra opera della Prince Series, «Orange Prince», a Condé Nast, per una copertina dedicata al cantante. Nessuna licenza, in questa occasione, fu richiesta a Goldsmith, che ha convenuto in giudizio la AWF.
Dopo un articolato processo, il caso è finito innanzi alla U.S. Supreme Court, che escluso la sussistenza del fair use (una limitazione al copyright statunitense che consente l’uso senza autorizzazione dell’autore di un’opera per finalità critica, commento, notizia, insegnamento, ricerca, la cui sussistenza dipende dalla valutazione di quattro fattori concorrenti. Oltre a quello oggetto del caso Goldsmith, gli altri criteri sono la natura dell’opera protetta, la significatività della parte utilizzata rispetto all’intera opera protetta e gli effetti dell’uso dell’opera sul suo mercato o valore, Ndr), e in particolare il primo requisito relativo allo «scopo e al carattere dell’utilizzo» (§107 Copyright Act).
La decisione
La Corte (Justice Sotomayor) esclude la sussistenza del fair use in questo caso, trattandosi di licenza commerciale. Essa stigmatizza la valorizzazione della fama di «Orange Prince» fatta dalla AWF come elemento da considerare, ritenendo che tale approccio legittimerebbe il plagio sulla base della celebrità di colui che copia un’opera altrui, anche in mancanza di un uso fair. Il fine del diritto d’autore è di incentivare la creatività, e tale incentivo deve dirigersi innanzitutto verso il creatore dell’opera originaria. La decisione ritiene determinante l’uso commerciale dell’opera (la licenza dell’AWF), per escludere il primo criterio di fair use.
Justice Kagan ha formulato un’opinione dissenziente, in cui valuta la natura appropriativa dell’arte di Warhol, per riconoscere la trasformatività di «Orange Prince», cogliendovi un nuovo significato rispetto alla foto. Poi, Kagan osserva che, nel 2016, la scelta di utilizzare in copertina «Orange Prince» e non la fotografia fu connessa alla volontà di comunicare due messaggi effettivamente distinti, e non alla interscambiabilità delle due opere: infatti, la fotografia presenta il cantante nel suo aspetto più umano, fragile e realistico; il ritratto di Warhol ne dà una rappresentazione iconica, disumanizzata e legata al culto della celebrità intrappolata negli ingranaggi della pubblicità. Inoltre, Kagan nota che l’uso commerciale di un’opera non ha inibito la Corte, in passato, dal ritener sussistente il fair use, e che il primo dei quattro fattori occorre solo per valutare la natura dell’uso nella creazione dell’opera successiva. Per Kagan, omettendo di attribuire a Warhol il merito della trasformazione, la Corte ha distorto il fine del fair use: incentivare la creatività.
Commento
A noi pare più convincente l’opinione di Justice Kagan. Infatti, questo precedente potrebbe comportare un irrigidimento del sistema del fair use, fino ad oggi in grado di adattarsi a diverse forme di espressione. Ciò che non convince, in particolare, è che l’uso, nel 2016, di un’opera di Warhol del 1984 possa essere determinante nella valutazione della fairness dell’uso dell’opera di Goldsmith.
Guardando all’Italia, i casi simili a questo sono valutati dal giudice tenendo conto di un altro fattore: l’esistenza di un significato artistico proprio della seconda opera, idoneo a conferirle originalità, grazie all’apprezzamento di uno «scarto semantico» tra le due opere in questione (v. Cass. 2039/2018). Sarà da verificare se questa interpretazione del fair use avrà effetti in Italia, dove, pur non appartenendo all’ordinamento, il fair use è stato studiato dalla giurisprudenza in relazione proprio all’arte appropriativa.