Nicole Eisenman, classe 1965, è fra le pittrici figurative viventi più celebri nella scena dell’arte contemporanea. La storia dell’arte, per lei, è un’eccitante e inesauribile fonte di ispirazione, una sorta di catalogo ready-made da riconvertire in un pastiche ultramoderno. Rinascimento, Impressionismo ed Espressionismo tedesco si fondono in composizioni che strizzano l’occhio a Picasso, Philip Guston e James Ensor. «Eisenman non si genuflette passivamente di fronte alla storia dell’arte, ha dichiarato Massimiliano Gioni. Semmai la resuscita, mimetizzandola nel nostro presente».
La Whitechapel Gallery di Londra, dall’11 ottobre al 14 gennaio, ospita la prima grande retrospettiva inglese dell’artista franco-statunitense, realizzata in collaborazione con il Museo Brandhorst di Monaco (a cura di Mark Godfrey e Monika Bayer-Wermuth). In mostra oltre 100 lavori prodotti negli ultimi trent’anni (parecchi dei quali mai esposti prima in Gran Bretagna) tra dipinti monumentali, sculture e disegni.
Un’arte, quella di Eisenman, che nelle parole del critico Terry Castle cattura «il viavai senza fine tra bene e male, tenerezza e brutalità che caratterizza la vita umana». Temi quali genere, sessualità e amore queer si intrecciano a riflessioni di natura politica e sociale, offrendo rappresentazioni a volte tragiche, altre ironiche, filtrate attraverso una sensibilità straordinariamente umanista.
La mostra è organizzata cronologicamente in otto sezioni. Ad aprire il percorso espositivo è una serie di disegni a inchiostro che raffigurano la vita delle donne gay a downtown New York negli anni Novanta. «Captured Pirates on the Island of Lesbos» (1992), ad esempio, materializza nei toni del seppia una fantasia erotica classicista, un’orgia di desideri in cui i confini tra piacere e violenza si fanno labili.
A partire dalla fine degli anni Duemila, la pittura di Eisenman si tinge di note più cupe e drammatiche. Sono gli anni della crisi finanziaria, della guerra in Iraq e della rielezione di George W Bush. «Coping» (2008), ad esempio, rappresenta una folla di individui dai volti spettrali, immersi in un mare di fango sotto un cielo apocalittico, in uno stile che rammenta le grandi scene corali di Brughel e Holbein. Dello stesso anno è il dipinto «The Session», in cui l’artista compare scalza e impaurita sul lettino del padre psichiatra, raffigurando quello che l’artista ha descritto come «il suo più grande incubo».
Intrisi di uno spirito attivista e comunitario sono i lavori della serie «Beer Gardens» (2009-17): qui i locali all’aperto di Brooklyn diventano i nuovi caffè impressionisti, rimpiazzando i gentiluomini e le gentildonne ottocentesche con hipster, millenial e artisti queer.
Tra i pezzi clou, i lavori che esplorano l’avvento del digitale, la «selfie culture» e il rapporto tra domesticità queer e nuove tecnologie. Il geniale «Morning Studio» (2016), forse il suo dipinto più noto, presenta due donne teneramente abbracciate su un divano e sullo sfondo la maxiproiezione del desktop di un Mac.
L’antologica si conclude con una scultura recente dell’artista, «Maker’s Muck» (2022): una grande opera cinetica in cui l’artista si autoritrae dinnanzi a un tornio, circondata dalle maquette dei suoi lavori più celebri.