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Vittorio Sgarbi
Leggi i suoi articoliChe il sistema dei concorsi universitari non premi il merito, ma le relazioni tra docenti e le inclinazioni servili dei loro assistenti, è cosa nota. E probabilmente insanabile se Umberto Eco propose di continuare ad attribuire le cattedre attraverso il protezionismo dei baroni e di istituirne altrettante, libere, per i capaci.
Questa riflessione ci fa capire quali garanzie dia il reclutamento di ordinari e associati nelle Università italiane, e le frustrazioni che ne trasformano il servilismo in arroganza. Una volta arrivati alle agognate cattedre, davanti a studenti ignari, manifestano prosopopea e moralismo, denunciando gli stessi meccanismi che li hanno favoriti.
Si vorrebbe almeno sperare che avessero frequentato buoni licei, imparando la lingua e la grammatica italiana. Ma non è così. La loro ignoranza si riverbera in documenti grondanti retorica e clamorose imprecisioni lessicali, a metà strada fra il delirio e la comicità. È in tal modo che si manifestano piccoli ignoranti con cattedre, rivelando una vergognosa povertà di lessico governata da insensatezze e infinita presunzione. Federico Zeri non perdeva occasione per denunciarle. I suoi idoli polemici erano Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi, peraltro sintatticamente ben strutturati anche quando astratti o languidi.
Zeri odiava i cattedratici per la loro retorica salvifica, e scriveva bene, con asciutta concretezza. E avrebbe letto con stupore e disappunto le cantilene di modesti maestrini forniti di quelle cattedre a lui negate e che, nondimeno, hanno coltivato intensi commerci con il mondo antiquariale. Penso a due tra i più protervi, come Andrea De Marchi e Francesco Caglioti, sgrammaticati estensori di proclami sul destino del patrimonio artistico italiano che loro, ben più delle Soprintendenze, pretenderebbero di difendere, appellandosi al ministro dei Beni culturali da cui invocano un commissariamento politico (cfr. edizione online 4 giugno 2015).
Ogni iniziativa che non sia maturata nel loro ambito è respinta inesorabilmente, a priori e senza conoscerne i confini. Così, invece di studiare le opere d’arte per parlarne con gli allievi, i due, investiti del loro improbabile sapere, firmano solenni manifesti, umiliando la lingua italiana e privandola di senso. Resta il tono, come di chi annuncia una catastrofe, mettendo insieme soggetti e verbi senza connessione. Sentite: «Ed è crudele il paradosso per cui sotto le bandiere della biodiversità si massacra ogni residuo legame delle opere d’arte con il loro territorio».
Tentiamo di capire. Può un paradosso essere «crudele»? E, soprattutto, si può «massacrare» un legame? O non, forse, «spezzare», «tagliare»? Non soddisfatti insistono: «La raffica di banalizzazioni commerciali irresponsabilmente affidate a un Vittorio Sgarbi»: altra insensatezza e altra sgrammaticatura. Cos’è una raffica «di banalizzazioni commerciali»? Si riferiscono a un testo? O a oggetti? Il testo non c’è, e gli oggetti non sono «commerciali», ma opere d’arte, pochissime commerciabili, la più parte di enti pubblici o fondazioni; e, ammesso che ci sia un irresponsabile, tra i responsabili di questa «banalizzazione», come «affidarne» la «raffica» a qualcuno? Ma i due professori in lotta con la lingua italiana non si quietano, e dichiarano di non poter «assistere in silenzio alla spirale che è stata imboccata». Mi piacerebbe sapere come «si assiste» a una spirale. È forse uno spettacolo? E come «imboccarla»? Si «imboccano» strade, sentieri, ma come «imboccare» una spirale? E ancora: i due si riferiscono genericamente a «queste opere», esposte nel padiglione Eataly all’Expo, senza indicare quali, considerando geneticamente «fragili» anche solidi bronzi o tele in perfette condizioni di conservazione.
Così concludono: «Al di là del repentaglio cui vengono sottoposte le opere, preoccupa il radicarsi...». Come insegna ogni dizionario, «repentaglio» esiste solo nella locuzione: «mettere a repentaglio». I due lo fanno diventare un sostantivo autonomo, come se equivalesse a «rischio» o a «pericolo».
Ma dove hanno imparato a scrivere De Marchi e Caglioti, trascinando nella «spirale» della loro ignoranza anche colleghi dotati di una buona scrittura come Tomaso Montanari?
Per loro «manutenzione» e «salvaguardia» non sono atti, ma «sfide». E sia! Ma la conseguenza non può essere l’umiliazione dell’insegnamento semplice e basilare in favore di uno specialismo coatto, vizio mentale di chi concepisce, a propria immagine e somiglianza, «la vera conoscenza fondata sull’innovazione del sapere, cioè sulla ricerca». Ridicola definizione, che sembra contrapporre la ricerca al metodo e alla disciplina. E così si spiega come, a forza di sperimentare e innovare, questi signori non abbiano studiato la grammatica della lingua italiana, che non è innovazione ma regola. Ed eccoli sperticarsi in affermazioni insensate, con l’aria grave e l’atteggiamento professorale: «Si dimentica che solo dalla conoscenza critica può nascere una vera crescita civile: quel “pieno sviluppo della persona umana” che la Costituzione segna come obiettivo finale della tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione».
Gonfi di retorica, dimenticano che ogni conoscenza è critica, perché passa attraverso l’intelligenza di chi vede, anche magari conducendolo a pensare autonomamente ciò che altri hanno pensato prima di lui. È il valore universale del sapere, così come della bellezza, che non prevede esclusive né specialità. Ma gli sgrammaticati, anche umanamente, non sanno distinguere tra una mostra di ricerca e una di rappresentanza, o di testimonianza, che faccia capire meglio, e in una nuova luce, ciò che è già noto, e per ciò stesso notevole. Così come ignorano che molte cose notevoli non sono note, e vanno fatte conoscere per consentire la «vera crescita civile» da loro invocata. Quanti ignorano Cristoforo Scacco, Saturnino Gatti, Girolamo da Cremona, Genovesino, Nicola di maestro Antonio d’Ancona? E perché non farli vedere a chi è rapito da Van Gogh, Munch, Picasso e Miró?
I chierici, oltre a studiare e rispettare la grammatica, dovrebbero anche promuovere la conoscenza di un patrimonio artistico come quello italiano, spesso misconosciuto quando non ignoto; e ringraziare chi aiuta e contribuisce a diffonderla, come ha fatto Eataly a Expo.
È esattamente quello che prescrisse il 29 ottobre 1946 la prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione: «Lo Stato deve diffondere con ogni mezzo la cultura popolare e professionale e favorire in tal senso le private iniziative». Chiaro, De Marchi, Caglioti, Montanari e altri supponenti? Altro che «aumento e redistribuzione di una vera conoscenza fondata sull’innovazione del sapere, cioè sulla ricerca». Ridicole parole in libertà. Non c’è niente da ridistribuire, e molto da conoscere.
Vittorio Sgarbi
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