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Mario Enrico Giacomelli
Leggi i suoi articoliDopo aver sviscerato il concetto di «disgusto» con Serena Feloj, questo mese affrontiamo il «kitsch» (termine che ha fatto la sua comparsa in Italia nel 1968 grazie a Gillo Dorfles e al suo libro, più volte riedito da Bompiani, Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto) in un dialogo con Andrea Mecacci, professore ordinario di Estetica all’Università di Firenze e autore de Il kitsch (il Mulino, 2014).
Se fosse costretto a compilare la voce «kitsch» di un dizionario filosofico, che cosa scriverebbe?
Mi permetto di riprendere quanto scrissi nell’introduzione di un mio testo: il kitsch sta all’estetica come la stupidità alla vita. E poiché ognuno di noi compie scelte e azioni stupide, è facilmente comprensibile come nessuno di noi sia estraneo alla forza pervasiva del kitsch. Per quanto riguarda una definizione più tecnica, si può dire che il kitsch è un esito dell’estetica moderna del gusto, da qui la semplificazione di indicarlo sommariamente come «cattivo gusto», e rientra sia nella sfera del soggetto, configurando una dimensione socio-antropologica, sia nella sfera dell’oggetto quotidiano o artistico, attivando precise morfologie.
Il kitsch come stupidità estetica è un dato «fisiologico»: dovremmo indagare se si tratti di una caratteristica precipua dell’animale umano o se questa proporzione sia estensibile ad altre specie. Vorrei però innanzitutto affrontare la questione del kitsch come «cattivo gusto»: quale rapporto intrattiene con il disgusto? Quest’ultimo è una sorta di «fuori di sé» del/dal gusto, mentre il kitsch sembra piuttosto una sua perversione.
Il kitsch è una possibilità dell’animale umano «moderno» e «occidentale». Si tratta infatti di una categoria partorita dall’estetica moderna e retrodatarla, rendendola astorica, è un’operazione a mio avviso non corretta. Una categoria, inoltre, che altre culture non hanno prodotto e che hanno assunto soltanto in modo indiretto. Passando alla domanda che pone, direi che tra kitsch e disgusto non v’è alcun rapporto. Il kitsch si struttura su cliché di banalizzazione del gusto, ha una sua idea normativa di bello e di come realizzarlo formalmente. Il disgusto è una sorta di «al di là» del gusto, un altrove ingestibile. Al limite solo il trash può intrattenere un rapporto col disgusto. Il kitsch ha orrore del disgusto, il trash lo usa come una sua possibile grammatica espressiva: il kitsch censura sé stesso, la sua natura è edulcorare sempre e comunque; il trash opta per il processo contrario, l’espressione immediata e incontrollata, anche dell’impulso fisico.
Si sta configurando una costellazione che ci permette di perimetrare l’angolo d’incidenza del kitsch. Proverei a inserire un’altra stella in questo sistema: il camp. Quest’ultimo opera nel quadro di una rivendicazione identitaria: negli anni ’60, infatti, Susan Sontag lo connetteva al mondo allora definito «omosessuale». Si potrebbe dire che il kitsch, quando diventa intelligente, si trasfigura in camp?
Definire il camp è operazione assai ardua. Più che una categoria estetica, è un atteggiamento estetico, figlio dell’estetismo e di una cultura «alta». Attribuire al camp la patente di un kitsch consapevole è legittimo. Il camp possiede un tasso di ironia e autoironia ignoto al kitsch. Sono dimensioni, il kitsch e il camp, molto prossime nelle forme, ma molto lontane negli esiti. Il camp svuota le forme del cattivo gusto e le teatralizza, le ironizza e quindi se ne distanzia con un processo di pura messa in scena. Il kitsch, al contrario, assolutizza i propri contenuti con una convinzione quasi dogmatica, mostrando l’incapacità di allontanarsi da questi stessi contenuti. Kitsch, trash, camp sono fenomeni indubbiamente non sovrapponibili da una prospettiva strettamente estetologica, tuttavia nell’estetizzazione contemporanea le loro differenze sono sempre più sfumate e labili.
Stiamo passando da una prospettiva sincronica a una diacronica. Le chiedo allora di identificare brevemente le origini del kitsch. Immagino che dovremo tornare agli esiti di un certo Romanticismo «banale», privo della mediatezza che procura, ad esempio, l’ironia. Procedura anch’essa legata al Romanticismo.
Molti dei contenuti del kitsch trovano le proprie premesse nelle derive del Romanticismo. La più importante è la trasformazione del sentimento romantico in sentimentalismo, ossia il circoscrivere l’esperienza estetica alla pura gratificazione emotiva. Hermann Broch ha ripetutamente insistito su questa filiazione. Altri fenomeni, però, concorrono alla genesi del kitsch: l’affermazione del dilettantismo, ad esempio. Il soggetto moderno non solo è protagonista passivo dell’esperienza estetica (il dibattito su gusto e cattivo gusto), ma anche attivo. Produce opere, affidandosi a due strategie: l’elemento sentimentalistico e la tecnica dell’effetto. Nel primo caso abbiamo un kitsch critico (si suppone che cosa sia «bello»), mentre nel secondo un kitsch mimetico o morfologico (si suppone come si debba realizzare un’opera). Potremmo dire che l’eredità del Romanticismo, nell’ottica che stiamo discutendo, è quella di aver configurato una dimensione normativa del sentimento e il kitsch ne è la forma.
Il sentimentalismo è una reazione emotiva allo spirito razionalistico dell’Illuminismo, la cui deriva è lo scientismo. È un fenomeno che attraversa la società e le arti nel XIX secolo e che, nelle arti stesse, trova anche la sua critica. Penso al sarcasmo espresso nel romanzo incompiuto di Flaubert, «Bouvard e Pécuchet» (1881). Possiamo affermare che il kitsch è la forma espressiva della modernità borghese?
Il kitsch è una delle forme espressive della modernità borghese. Se di questa modernità è «la forma», quasi esclusiva, è una questione spinosa. Il kitsch è un fenomeno che muta. Noi tendiamo ad averne un’immagine cristallizzata. Ma la borghesia europea dell’Ottocento, che possiamo far coincidere con Emma Bovary o i Buddenbrook, non ha molto a che fare con il ceto medio americano di metà Novecento o con la società globalizzata, ed estetizzata, attuale. Certamente il kitsch coincide con il moderno, ne assimila i processi, li consolida (pensiamo soltanto al nesso tra fruizione estetica e civiltà industriale) e li trasforma. In questo senso oggi si può parlare di neokitsch come fase ulteriore di questa evoluzione.
Quanto dice a proposito della diversificazione geografica della società (e quindi anche del significato attribuito a termini come kitsch) mi ha fatto ricordare un’intervista che feci qualche anno fa a David LaChapelle e alla sua reazione stizzita quando pronunciai quella parola, che per lui era sinonimo di «cheap». Tornando a noi: prima di affrontare l’evoluzione del kitsch nel contesto postmoderno, vorrei evidenziare un fil rouge che emerge in molti analisti del kitsch (da Adorno a Broch, da Clement Greenberg a Rosalind Krauss), cioè la critica del kitsch stesso in chiave etico-politica, come se rappresentasse il simbolo e il sintomo della sussunzione dell’arte da parte del capitalismo.
La condanna morale del kitsch è stata una costante, un motivo dominante della cultura moderna. Si tratta di un segnale significativo. Il problema non era la morfologia cheap, ma l’antropologia che la sosteneva e vi si riconosceva. Formule come «industria culturale» o «midcult» hanno cercato di comprendere il nesso tra la produzione capitalistica e l’ethos estetico che si era ormai consolidato e che definiamo sommariamente come «borghese». Possiamo rintracciare negli autori citati un approccio modernista per il quale il kitsch non poteva che rappresentare la sintesi negativa di tutta la cultura, prima borghese e poi massificata, che il capitalismo aveva prodotto. L’avanguardia (uso questo termine in senso lato) fu la risposta a cui ci si appellò. Un farmaco un po’ mal digerito, a dire il vero.
In effetti una certa idea di avanguardia si è rivelata un pharmakon, farmaco e veleno al tempo stesso. Così arriviamo al neokitsch, la cui icona potrebbe essere il «Puppy» (1992) di Jeff Koons. Qual è la morfologia di quest’evoluzione del kitsch moderno?
Quando il postmoderno inglobò la cultura di massa nella sua grammatica operativa, il kitsch vi entrò da protagonista. Una volta sdoganato e utilizzato come possibile strategia mimetica, il kitsch si legittimò senza alcun complesso di inferiorità. Artisti come Jeff Koons (sebbene Koons stesso non ami la parola kitsch e preferisca un lemma apparentemente più anonimo, banalità), hanno registrato questo passaggio da un’idea vetusta di kitsch a una sua versione aggiornata, il neokitsch, in cui le forme, una volta tanto osteggiate del cosiddetto cattivo gusto, sono ormai patrimonio condiviso e diffuso. Così, il lato nefasto del kitsch non è tanto da rinvenire nelle produzioni artistiche o nel mondo delle merci, piuttosto in alcuni atteggiamenti non estetici, ma etici: il conformismo culturale, accademico e giornalistico, l’abuso del politically correct, la tirannia della comunicazione estetizzata e spesso acefala della nostra quotidianità, la tuttologia che ci circonda inesorabilmente. Ma è più confortante continuare a pensare che il kitsch sia il nanetto nel giardino di qualcun altro.
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