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Daniele Morandi Bonacossi dell’Università di Udine, dopo aver scavato Qatna in Siria è ora responsabile in Iraq della missione nel Kurdistan nord-occidentale dove si stanno studiando per la prima volta un vasto territorio con rilievi rupestri e chilometri di canalizzazioni di epoca neoassira.

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Daniele Morandi Bonacossi dell’Università di Udine, dopo aver scavato Qatna in Siria è ora responsabile in Iraq della missione nel Kurdistan nord-occidentale dove si stanno studiando per la prima volta un vasto territorio con rilievi rupestri e chilometri di canalizzazioni di epoca neoassira.

Nostalgia di visitare di nuovo Iraq e Siria

Roma. Siria e Iraq: conservano le testimonianze più antiche della civiltà occidentale che da sempre impegnano le nostre missioni archeologiche. Da anni i due Paesi sono devastati dalla guerra, i loro beni culturali distrutti e depredati. Oggi in Siria ogni attività di ricerca archeologica è interrotta. Impossibile viaggiare, la presenza delle missioni straniere non è consentita: eserciti e milizie ovunque, città sfigurate, patrimonio archeologico saccheggiato. In Iraq, dopo anni di massacri e gravissimi danni alle antichità più preziose, incombe anche la minaccia del cosiddetto Stato islamico, l’Is, che controlla intere regioni nei due Stati: saccheggio e distruzioni delle antichità continuano e vengono incoraggiate.
Nonostante la guerra in corso, negli ultimi anni il Governo di Baghdad favorisce la presenza di missioni archeologiche straniere in ampie zone messe in sicurezza. L’autorità centrale ha anche una serie di programmi per salvare e rilanciare il suo immenso patrimonio archeologico e promuove nuovi scavi soprattutto nel Sud del Paese. Lo stesso accade a Nord, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, non lontano dalle zone di guerra lungo il confine mobile dei combattimenti tra i curdi e l’Is dei fondamentalisti islamici.

Nelle colline di Abramo

Sembra paradossale, ma in questa situazione che parrebbe rischiosa e precaria, oggi in Iraq operano circa sessanta missioni archeologiche straniere. Anche l’Italia ha un ruolo di primo piano. A Nord, proprio in Kurdistan, sta lavorando l’importante missione di Daniele Morandi Bonacossi, dell’Università di Udine; nella stessa regione, a Erbil, capitale culturale del Kurdistan, opera un’altra missione della Sapienza di Roma; Milano (Iulm) ha in corso la missione a Helawa di Luca Peyronel; a Sud di Baghdad lavora la missione di Carlo Lippolis dell’Università di Torino, mentre ancora più a Sud stanno per cominciare nuovi scavi a Nina (Lagash) diretti da Davide Nadali della Sapienza di Roma e alla stessa università romana fa capo la missione forse più importante, quella di Franco D’Agostino, archeologo, sumerologo, filologo esperto in lingue del Medio Oriente, e Licia Romano, archeologa esperta di Mesopotamia meridionale. In queste settimane è ad Abu Tbeirah, poco lontano da Nassirya, la città dove nel 2003 sono morti in un attentato 19 militari italiani. «Nel 2007, racconta D’Agostino, quando i nostri Carabinieri lasciarono definitivamente l’Iraq, ho chiesto al Ministero degli Esteri i fondi per un progetto di ricostituzione civile, culturale, archeologica del Paese, seguendo l’esperienza positiva della Task Force Iraq. Prima feci dei corsi di istruzione nella base americana, poi le Autorità locali mi chiesero di aprire uno scavo. Le autorità considerano l’archeologia la forma più pacifica di intervento sul territorio per superare l’emergenza: se si può fare vuol dire che c’è la pace. Così ho aperto uno scavo con gli iracheni ad Abu Tbeirah, in una zona archeologica di oltre 40 ettari mai prima esplorata. Quando c’erano gli americani, nel Sud non si poteva scavare: siamo stati i primi e abbiamo già fatto 4 campagne di scavi. Pensiamo che soltanto nel Dhi-Quar, la regione di Nassirya, una delle 19 dell’Iraq, ci sono 1.200 siti archeologici di tutte le epoche, grandi e piccoli».
Ma l’Iraq resta un Paese in guerra. La minaccia è costante, nel Nord c’è l’Is e si bombarda ogni giorno. Possibile che non ci siano rischi?
Questa regione è quasi completamente sciita, già cuore dell’opposizione a Saddam Hussein. Da tempo qui non ci sono conflitti e si può lavorare con una certa tranquillità. Siamo lontani dal Nord, dall’Iraq in guerra. Del resto vengo chiamato dagli iracheni di Baghdad e di Nassirya a fare il mio lavoro, quello che mi appassiona. Qui si sta ricostruendo un tessuto civile e si cerca di ristabilire le regole di base.Per i beni culturali il modello è l’Italia, la legge locale è fatta sul modello di quella italiana.
Questo vuol dire che non vi limitate a scavare. Quali sono gli altri progetti?
Il Ministero iracheno del Turismo e dell’Archeologia, che protegge e valorizza il patrimonio del Paese, all’inizio del 2014 ha lanciato un progetto ambizioso: vorrebbe che tre importantissimi siti archeologici vicini (Ur, Eridu e Uruk) fossero inseriti nella lista dei beni protetti all’Unesco, insieme con le Marshlands, le vaste zone paludose dell’estremo Sud. Noi siamo stati incaricati di preparare la documentazione necessaria per sostenere la richiesta all’Unesco. L’idea è di farne anche una meta turistica internazionale.
Lei pensa che sia possibile? Ur era una delle più grandi città del mondo intorno al 2000 a.C, un sito archeologico famoso per la sua grande Ziggurat quasi intatta, ma il turismo in Iraq per ora non esiste.
Ur è un sito straordinario, nel tempo antico era sul mare: gli scavi fino al 2010 erano all’interno di una base militare, visitarli non era facile. Abbiamo convinto le autorità a spostarla all’esterno della fascia di rispetto del sito, un tell, una grande collina. Per di più la base militare era costruita proprio sopra un antico villaggio del 2200 a.C. abitato da operai che lavoravano le pietre per i palazzi del re e venivano probabilmente dall’India. Ma l’area non è ancora stata scavata, quindi se ne sa poco. Il fascino dei luoghi non si affida soltanto ai monumenti antichi e agli scavi: questa è la terra del profeta Abramo, Ur era la sua città. Abramo è figura importantissima per le tre religioni, cristiana, islamica e naturalmente ebraica. Da qui, verso il 1800 a.C., Abramo sarebbe partito per il suo viaggio verso Canaan. Del resto, ho chiamato il mio progetto di scavo ad Abu Tbeirah «Le colline di Abramo» perché è il nome che la gente del posto dà a quel luogo. C’era stato già un primo tentativo di turismo religioso, un pellegrinaggio organizzato dalla Chiesa, ma adesso tutto è fermo.
Le paludi come entrano nel progetto?
Le Marshlands, poco lontano da Ur, formano un vastissimo ambiente naturale unico al mondo. Sono state il rifugio degli oppositori sciiti di Saddam che per cacciarli aveva fatto scavare un canale per prosciugarle e costringere i combattenti ad andarsene. Appena Saddam è stato cacciato, il nuovo Governo ha chiuso il canale e le paludi si stanno lentamente riformando. È un luogo meraviglioso, dove sopravvivono stili di vita antichissimi, ci sono i bufali d’acqua e siti archeologici scoperti da poco, fondati dai Sumeri, in gran parte ancora da scavare. Dunque nel Sud dell’Iraq ci sarebbe la possibilità di fare turismo culturale, religioso e ambientale. Il patrocinio dell’Unesco per quell’area potrebbe rappresentare una pressione molto forte sul Paese, per cambiare e organizzarsi in campo culturale e turistico.

Kurdistan, nuovo Eldorado

L’altra importante missione archeologica italiana è nel Kurdistan iracheno, mille chilometri dalla missione di D’Agostino. A dirigerla è Daniele Morandi Bonacossi, con la sua équipe dell’Università di Udine. Aveva cominciato a scavare dal 1988 in Siria orientale, nella valle del fiume Khabur. Anni dopo, a Occidente del Paese, ha portato alla luce Qatna, capitale di un regno assiro del II millennio a.C. Nell’ottobre del 2010 stava continuando a scavare i grandi edifici, tra cui il palazzo reale, e riemergevano altri quartieri. Si progettava di chiedere per Qatna l’iscrizione nella lista provvisoria dell’Unesco. «È stata l’ultima campagna regolare, racconta Daniele Morandi. Avremmo dovuto tornare in Siria nell’estate del 2011. In marzo è scoppiata la guerra. L’Is non c’era ancora ma non era più possibile lavorare. Anche il materiale scavato è rimasto in Siria. La direzione delle antichità non ha più consentito di esportare neanche campioni di materiali ceramici per motivi di studio. Nel 2011 la situazione era degenerata. In Siria la tragedia è colossale. Difficile dire cosa rimarrà, temo molto poco. Mi sono trasferito nel Kurdistan iracheno. Per chi come me si occupa da molti anni di Siria, dell’età del bronzo e del ferro, rimanevano poche scelte. Siria chiusa, Libano a rischio, la Turchia è sempre molto interessante ma ormai le licenze alle missioni straniere vengono concesse con il contagocce e le richieste finanziarie sono molto elevate. Il Governo turco guarda a Est, segue una deriva neoottomana e preferisce non avere rapporti con noi e con le altre missioni straniere».
Anche il Kurdistan, regione autonoma dell’Iraq, è coinvolta direttamente nella guerra con l’Is, e la missione non è molto distante dal fronte. «Certo, prosegue Morandi Bonacossi, la situazione del Kurdistan è molto instabile, ma noi stiamo lavorando lì dal 18 gennaio e rimarremo fino al 20 marzo. Nell’agosto scorso siamo stati costretti a rientrare in Italia: l’Is avanzava, aveva preso la diga di Mossul, erano cominciati i bombardamenti americani».
E quanto è interessante il Kurdistan dal punto di vista archeologico?
Il Kurdistan è diventato il nuovo Eldorado della ricerca archeologica nel vicino Oriente, l’unico posto (Turchia a parte) dove si possa ancora lavorare. Abbiamo cominciato con una ricognizione di superficie nell’area di Dohuk, Kurdistan nord-occidentale. Una zona di 3mila km quadrati al confine con la Turchia in cui abbiamo scoperto circa 500 siti archeologici. Non è una zona meno importante di Qatna, nel cuore dell’antica Mesopotamia del Nord, crocevia viario e commerciale a cavallo tra Iran, Anatolia, Occidente siriano fino al Mediterraneo, nell’entroterra dell’ultima capitale assira, Ninive, nel cuore dell’impero della prima metà del I millennio a.C. Non si era mai potuta studiare con metodi moderni.
Quali sono i rapporti con i curdi, in una regione autonoma in prima linea contro l’Is?
Ottimi. Le autorità sono liberali nelle concessioni, abbiamo anche uno scavo. Ci hanno accolto a braccia aperte. Siamo a un passaggio molto importante: ci dedicheremo alla documentazione e studio dei materiali archeologici raccolti finora. Soltanto per le analisi di laboratorio di tipo biologico (pollini, campioni archeobotanici e altri esami, impossibili da eseguire sul posto) le autorità curde ci permettono di portare i frammenti necessari in Italia. Poi terremo dei corsi di formazione per il personale della Direzione delle antichità di Dohuk…., per aggiornarli sui metodi di ricerca interdisciplinare dell’archeologia di oggi, e sulle tecniche di gestione del patrimonio archeologico. Infatti, lo scopo è creare un parco archeologico ambientale centrato sull’antico sistema di irrigazione della zona. È un insieme di opere molto complesso ed esteso. La sua esistenza era nota fin dall’800, e noti erano alcuni grandi rilievi rupestri e acquedotti. Ma siamo i primi a poterlo studiare in maniera sistematica. Sono più di 240 km di canali per l’irrigazione neoassiri dell’VIII-VIIsecolo a.C., l’epoca del re Sennacherib, un insieme con dighe, chiuse e straordinari rilievi. Un patrimonio culturale che sarà completamente documentato e che va protetto e valorizzato, anche a fini turistici.
Quanto costa una missione come la vostra e da dove arrivano i fondi?
La situazione è ambivalente. Abbiamo un buon finanziamento di 400mila euro dalla Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri italiano per la creazione del parco archeologico del sistema idraulico di Sennacherib e per i corsi che abbiamo in programma. È paradossale che manchino invece i soldi per portare le nostre missioni scientifiche all’estero: viaggi, soggiorno, paghe per gli operai. Rientra nella voce «ricerca di base»: l’archeologia di oggi è fatta anche di studio, laboratori, documentazione ecc. Da quasi due anni il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, cioè lo Stato, unico in Europa, non finanzia più i «progetti di interesse nazionale», cioè tutta la ricerca di base: fisica, medicina, chimica ecc., comprese le missioni archeologiche. Per partire e lavorare dobbiamo arrabattarci: abbiamo qualcosa dalla Regione Friuli Venezia Giulia, dalla Fondazione Cassa di Risparmio locale e perfino da un privato, Alberto Giorgiutti, un signore illuminato di Udine, consulente del lavoro, caso rarissimo di vero mecenate.








Daniele Morandi Bonacossi dell’Università di Udine, dopo aver scavato Qatna in Siria è ora responsabile in Iraq della missione nel Kurdistan nord-occidentale dove si stanno studiando per la prima volta un vasto territorio con rilievi rupestri e chilometri di canalizzazioni di epoca neoassira.

Daniele Morandi Bonacossi dell’Università di Udine, dopo aver scavato Qatna in Siria è ora responsabile in Iraq della missione nel Kurdistan nord-occidentale dove si stanno studiando per la prima volta un vasto territorio con rilievi rupestri e chilometri di canalizzazioni di epoca neoassira.

Edek Osser, 11 febbraio 2015 | © Riproduzione riservata

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