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Pietro Longhi, «La lettera del moro», Venezia, Ca’ Rezzonico

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Pietro Longhi, «La lettera del moro», Venezia, Ca’ Rezzonico

Dal Canal Grande alle rive del Brenta

LA LAGUNA RACCONTA | La villeggiatura nella campagna veneta tra sogno e status symbol

Federica Spadotto

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Mi capita ancora di sorridere quando penso alla domanda che in più di un’occasione mi è stata posta in merito al Settecento veneziano: «Se dovesse riassumere in un inciso l’essenza di quell’epoca, quale sceglierebbe?». Quando rispondo: «La vita è sogno, citando Pedro Calderón de la Barca, sul volto dell’interlocutore si disegna un’espressione molto eloquente, mista di assenso e delusione, come accade per le frasi fatte. «È ovvio che vivere a Venezia sia come stare immersi in un sogno; è la città sospesa sull’acqua e il suo fascino visionario è noto a tutti, sin dalla notte dei tempi!» borbotta dentro di sé l’appassionato o collezionista di turno, non capendo di aver completamente sbagliato prospettiva. Urge quindi fornire spiegazione, anche se spesso non richiesta per pudore e rispetto.

Sono io, questa volta, a porre una domanda, cui molto tempo addietro, all’inizio della mia carriera, ho faticato a rispondere: «Perché nei palazzi veneziani non si trovano mai appese vedute, bensì un’immensa quantità di paesaggi?». Semplice: «Perché nessuno di noi si metterebbe in salotto un’immagine del proprio giardino o del quartiere dove abita». Pur magnifica, Venezia rappresentava per i suoi cittadini il luogo dell’abitudine, frequentato ogni giorno e proprio per questo scontato, come lo diventa anche la più fulgida bellezza se tenuta sempre dinanzi agli occhi.

Nella capitale del divertimento, meta di viaggiatori giunti per sollazzarsi e godere del Carnevale, dei tour in gondola e dei teatri, chi se lo poteva permettere sognava di evadere nel territorio del tutto diverso, anche se poco distante, chiamato «campagna», ovvero il luogo della villeggiatura.

La sua estensione era circoscritta nel raggio di qualche decina di chilometri nell’entroterra, sebbene il territorio compreso tra la città marciana e Padova, lambito dal fiume Brenta, rappresentasse la meta più alla moda, come testimonia la poderosa raccolta d’incisioni data alle stampe dall’architetto e pittore veneziano Gian Francesco Costa nel 1773, intitolata «Delle delicie del fiume Brenta».

Sebbene oggi venga frequentato soltanto dagli addetti ai lavori, questo volume rappresenta un vero e proprio manifesto dell’estetica veneziana del XVIII secolo, in quanto passa in rassegna le centinaia di ville nobiliari che si affacciavano sulla riviera a cui rivolgevano necessariamente lo sguardo i villeggianti seduti sul burchiello, imbarcazione a remi creata all’uopo per poter ammirare il paesaggio durante il tragitto.

In quella che il de Brosses aveva definito una  «diligenza d’acqua […] infinitamente più pulita ed elegante, con una piccola anticamera per i servi, una cabina tappezzata di broccatello veneziano, con una tavola e due corridoi ornati in marocchino, aperti su otto autentiche finestre e su due porte a vetri» (Viaggio in Italia, 1739) gli aristocratici veneziani abbandonavano la calura estiva per recarsi nelle loro «seconde case».

In una suggestiva cornice campestre prendeva forma l’immaginario settecentesco, che la fantasia traghettava nel mito virgiliano trasformando le terre coltivate con fatica e sacrificio in scenari d’intatta bellezza, popolati da villani languidi e leziosi intenti a conversare tra loro all’ombra di grandi alberi. La natura benigna sorrideva ai suoi figli regalando cieli sereni illuminati da un eterno sole meridiano, dove la vita trascorre felice e priva di qualsivoglia «accidente», proprio come accade nei sogni e nei dipinti dell’epoca, appesi nelle dimore cittadine come ricordo, e allo stesso tempo promessa, di felicità.

Questa dimensione idilliaca non rappresentava tuttavia l’unico aspetto dei soggiorni fuori porta, almeno da quanto tramanda il commediografo Carlo Goldoni nella sua Trilogia della villeggiatura (1761), che porta sulle scene un interessante risvolto sociale (peraltro molto affine alla nostra epoca), illustrando lo stress legato ai preparativi, alle spese inutili, alla smania di ostentazione dei protagonisti impegnati in una continua gara di esibizionismo.

Le stesse ville, d’altra parte, si contendevano il primato di gradimento a colpi di affreschi e decorazioni che fungevano da parametro per misurare il prestigio del loro proprietario. Per chi contava a Venezia possederne una era necessario, come dimostra la scelta di Joseph Smith, futuro console inglese in Laguna, nonché esclusivo tramite per la vendita di vedute canalettiane in Inghilterra.

Oltre che nel palazzo sul Canal Grande, quest’ultimo amava ricevere i  clienti d’oltremanica nella sua villa di Mogliano Veneto, sigillando un ruolo economico e sociale consolidato. La villa in campagna fungeva da suggestiva cornice per proporre agli ospiti/avventori i paesaggi di Francesco Zuccarelli, indiscusso protagonista del genere, incastonati nel loro luogo d’ispirazione.

Benché per lungo tempo la storiografia artistica abbia del tutto trascurato il fascino della campagna veneta sui gentiluomini del Grand Tour, concentrando l’attenzione su Venezia, in realtà numerose testimonianze pittoriche ospitano i borghi disseminati lungo il fiume Brenta e resi immortali dal pennello canalettiano e guardesco.

Una curiosa circostanza vuole inoltre che il committente dell’opera, un aristocratico straniero, faccia bella mostra di sé, insieme al proprio cane, in una «Veduta con la chiusa del Dolo» realizzata da Giovan Battista Cimaroli verso la metà del XVIII secolo. A conferma del fascino esercitato dall’entroterra veneto, il luogo dei sogni che aveva ammaliato lo stesso Goethe durante il suo viaggio in Italia (1786).
Parlando del tragitto da Venezia a Padova lungo le sponde del placido fiume, lo scrittore delinea con le parole il medesimo «locus amoenus» delle tele settecentesche: «Le rive sono abbellite da giardini e da padiglioni, piccoli villaggi si affacciano alla sponda […]. Bisogna spesso fare piccole soste, di cui si può approfittare per dare un’occhiata al paese e per gustare i frutti che vengono offerti in abbondanza».

Di questo scenario, pur trasfigurato dalla sensibilità preromantica, oggi non rimane che un vaghissimo eco, soffocato dai rumori del traffico e dalla frenesia di una vita completamente diversa. In un panorama decisamente mutato restano ancora intatte, per nostra fortuna, molte di quelle ville, che con la loro quieta presenza preservano il fascino della riviera. Alla loro vista non si può sottrarre lo sguardo, attratto dall’equilibrio delle forme e dalla simmetria dei volumi che si fanno ammirare con il loro fascino seduttivo. Le ville esercitano su di noi la medesima attrazione suscitata a John Strange, penultimo residente britannico, che si riportò in patria un’immagine eseguita da Francesco Guardi di Villa Loredan a Paese, dove amava intrattenersi molto più volentieri rispetto alla sua sede deputata in quel di Venezia.

La mole dell’edificio occupa il centro della composizione e ne rappresenta il fulcro, cui la coppia di personaggi in primo piano paiono rivolgersi; tutt’intorno sfilano dame, gentiluomini, fanciulli, cani, alberi rigogliosi, come in un’istantanea ante litteram o in una sapiente metafora della felicità.


LA LAGUNA RACCONTA
Per una toponomastica del mestiere più antico del mondo a Venezia
La villeggiatura nella campagna veneta tra sogno e status symbol

Pietro Longhi, «La lettera del moro», Venezia, Ca’ Rezzonico

«Il burchiello», incisione

Francesco Zuccarelli, «Paesaggio con fanciulli al bagno», collezione privata

Canaletto, «Le chiuse di Dolo», Oxford, Ashmolean Museum

Giovanni Battista Cimaroli, «Veduta della chiusa di Dolo sul canale della Brenta», collezione privata

Francesco Guardi, Villa Loredan a Paese, Oxford, Ashmolean Museum

Federica Spadotto, 26 giugno 2020 | © Riproduzione riservata

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