Italo Calvino (1923-85) viene celebrato nel centenario della sua nascita con una mostra che intreccia arte e letteratura, «Favoloso Calvino. Il mondo come opera d’arte. Carpaccio, de Chirico, Gnoli, Melotti e gli altri», allestita nelle Scuderie del Quirinale dal 13 ottobre al 4 febbraio 2024. Oltre 400 oggetti, tra dipinti, sculture, disegni, illustrazioni, libri, codici miniati medievali e installazioni contemporanee, ma anche arazzi e fotografie, raccontano vita, pensiero e inesauribile inventiva dello scrittore. Curatore della mostra è Mario Barenghi, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano, e tra i maggiori esperti di Italo Calvino.
Professor Barenghi, quale fu il rapporto di Italo Calvino con le immagini?
Molto noto e citato è il passo della «Nota 1960» ai «Nostri antenati» in cui Calvino dice che all’origine dei suoi racconti c’è sempre un’immagine: un’immagine che gli si deposita nella mente, e dalla quale a un certo punto, a un certo grado di maturazione o sedimentazione, comincia a dipanarsi una storia. Questo si capisce bene nel caso della trilogia (il personaggio tagliato a metà, il ragazzo che sale sugli alberi e non scende più, l’armatura vuota che si muove come se dentro ci fosse qualcuno). Ma in realtà il discorso vale per molti altri racconti. Le immagini, intese in senso sia fisico, sia mentale («idee», nel senso etimologico), hanno un ruolo fondamentale nel suo processo creativo: basti pensare alle «Cosmicomiche», dove lo spunto iniziale è sempre una teoria scientifica, o alle «Città invisibili», che sono un libro di descrizioni, o al «Castello dei destini incrociati», in cui la narrazione prende forma dall’interpretazione delle figure dei tarocchi.
Quale fu il suo rapporto con gli artisti? Le è giunto qualche aneddoto?
È una domanda che si potrebbe utilmente girare a Paolini, a Serafini, a Pericoli... Personalmente, temo di non conoscere alcun aneddoto particolare. Di certo, Calvino è stato molto colpito da Picasso, che per parecchio tempo rappresenta per lui una sorta di paradigma estetico; amava molto Klee; ha tratto ispirazione da Fausto Melotti; ha avuto un rapporto significativo con Saul Steinberg; le pagine che ha scritto su Domenico Gnoli sono, a mio avviso, tra le sue più suggestive. Quanto ai rapporti personali, i due poli sono Torino e Parigi: dapprima i pittori torinesi, Carlo Levi su tutti, ma anche Francesco Menzio, e vari altri, poi, negli anni Settanta, gli artisti italiani attivi nella capitale francese, come Alberto Magnelli, Cesare Peverelli, Valerio Adami.
Quali sono i nodi cruciali di questa mostra, e a quale pubblico si rivolge?
L’ambizione di questa mostra è di parlare sia agli estimatori di Calvino, ai suoi lettori più fedeli e affezionati, sia a chi si accosta alla sua opera per la prima volta, a cominciare dai ragazzi, dagli studenti. I visitatori troveranno sia riferimenti documentari precisi (i ritratti dell’autore, le copertine dei suoi libri, alcune delle opere d’arte di cui ha parlato, pagine a stampa, esempi di manoscritti) sia oggetti e opere di carattere essenzialmente evocativo, come le installazioni di Eva Jospin o di Emilio Isgrò, l’arazzo millefiori di Pistoia, il dipinto di Richard Serra. I due filoni dovrebbero convergere nel suggerire un’idea dell’immaginario calviniano, nella varietà delle sue declinazioni, nella sua ricchezza e complessità.
A sua personale opinione, è più potente l’immagine o la parola?
Non ne farei una questione di grado, ma di qualità. Sia la parola sia l’immagine possono molto: ciascuna ha la propria potenza, i propri poteri, o meglio sarebbe dire, le proprie possibilità e potenzialità. Di sicuro, non sono interscambiabili. Ci sono rappresentazioni visuali dotate di una forza che il discorso non riesce a riprodurre; e viceversa, ci sono parole non traducibili in immagini.
Chi fu realmente Calvino? A fasi realista, fiabesco, sperimentalista, strutturalista, postmoderno...
Parlando dei rapporti con la critica, Calvino ebbe a dichiarare una volta che «il gran segreto» è nascondersi, far perdere le proprie tracce. Calvino cercava di sfuggire alle definizioni, e nello stesso tempo cercava anche di sfuggire un po’ a sé stesso; ma poi cercava anche di ritrovarsi, o meglio, di dare una direzione riconoscibile al proprio agire. Il punto è che nel suo atteggiamento nei confronti della propria opera convivono due istanze contrarie. Da un lato la volontà di rinnovarsi di continuo, di sperimentare, di esplorare nuove possibilità, cui s’accompagna la paura di ripetersi, di «cadere nella cifra», per usare una sua espressione; dall’altro il desiderio (o la speranza) che la sua esperienza creativa presenti comunque una coerenza di fondo, un senso complessivo. Ovviamente si tratta di un dilemma insolubile, di una contraddizione che non trova un approdo definitivo. Non è un caso che le ultime due qualità della letteratura delle «Lezioni americane» siano Multiplicity e Consistency.
C’è ancora qualcosa da scoprire di questo «favoloso» scrittore?
C’è sempre qualcosa da scoprire nell’opera dei grandi scrittori, perché noi leggiamo le loro opere sullo sfondo di un contesto (sociale, culturale, ambientale, storico) che cambia di volta in volta. Non è che le opere letterarie siano come miniere o pozzi inesauribili, da cui è possibile ricavare quantità infinite di diamanti o di petrolio, di ferro o di acqua. Le opere letterarie sono come reti con le quali andiamo a pescare nel mare del nostro presente. È per questo che, come Calvino scriveva, i classici non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire: perché ci consegnano reti dalle maglie abbastanza strette e abbastanza solide da rimanere utilizzabili, resistendo agli anni e alle correnti.
Calvino può ancora fornirci una chiave di lettura per la nostra turbinosa età?
I tempi che viviamo sono difficili, ma non si può certo dire che quelli vissuti da Calvino lo fossero meno; anzi. Se c’è una situazione esistenziale tipicamente calviniana, è proprio questa: trovarsi di fronte a un cambiamento improvviso e dover decidere come reagire. Dal «Sentiero dei nidi ragno» alle «Cosmicomiche», dalla trilogia a «Se una notte d’inverno un viaggiatore», il protagonista è sempre chiamato a ripensare la propria posizione alla luce di eventi inattesi. Da questo punto di vista, Calvino è uno scrittore di straordinaria attualità.