L’assenza è l’essenza

Trenta opere di Emilio Prini alla Fondazione Merz

«Senza titolo» (1968) di Emilio Prini (particolare)
Franco Fanelli |  | Torino

«Se posso, non creo»: Emilio Prini (1943-2016) aveva capito che la più radicale forma di opposizione ai cascami retorici e feticistici dell’arte consisteva in una sorta di identificazione in Bartleby, il renitente scrivano di Melville e nell’adesione al suo «preferisco di no».

Prini ha prodotto poco e ha pensato moltissimo; ha messo in atto tutti i dispositivi demolitori dell’arte così come la conosciamo e viene praticata da millenni: la negazione dell’autorialità; la sottrazione dell’opera (per cui il perimetro di una stanza vuota evidenziato da una fonte luminosa è opera nel momento in cui si nega alla sua presenza oggettuale); la tautologia (fotografò una macchina fotografica); la sostituzione del manufatto con le parole (ad esempio, «ho preparato una trappola per Alice nel Paese delle Meraviglie») ermetiche come, appunto, il diario dei sogni di un artista che dal 1971 diradò al
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