L’orgoglio di esserci di nuovo. Bradburne | Brera | 2

ARTPRIDE | Il direttore di Brera prosegue nell'esposizione del suo «Manifesto» personale per una rivoluzione dei musei

James Bradburne. © OMara
James Bradburne |  | MILANO

Riceviamo da James Bradburne e pubblichiamo il proseguimento del suo discorso su una rivoluzione possibile dei musei. | 

Quando si sale in cima a un'alta montagna, si vede che le cose in qualche modo si fondono e si livellano in un'unica pianura. Anche le verità si fondono insieme da una certa altezza. Naturalmente l'uomo non vive e non può vivere sulla cima di una montagna; gli basta vedere la sua casa o il suo campo nelle vicinanze, entrambi pieni di verità e cose del genere. Lì c'è il suo vero posto e la sua vera sfera d'azione. Ma ogni tanto può guardare una montagna o il cielo e dire a se stesso che da lì le sue verità e queste cose esistono ancora e non gli è stato rubato nulla; piuttosto, si sono fuse insieme con qualcosa di molto più libero e senza limiti che non è più di sua proprietà. Aggrapparsi a questa visione più ampia mentre coltiva il suo piccolo campo – questo, Giuseppe, è qualcosa di quasi simile alla devozione. [...] Io credo. Credo con passione che la verità esiste e che noi la riconosciamo. Sarebbe una follia pensare che la verità sia lì solo perché noi non la riconosciamo. La riconosciamo, sì, ma chi di noi? Io, o tu, o forse tutti noi? Credo che ognuno di noi abbia la sua parte di verità, sia chi dice sì sia chi dice no. Se quei due si unissero e si capissero, si saprebbe tutta la verità. Certo, sì e no non possono unirsi, ma le persone possono sempre farlo; c'è più verità nelle persone che nelle parole. Ho più comprensione delle persone che delle loro verità, ma c'è fede anche in questo.

Karl Capek, What is Truth, Apocryphal Tales, dicembre 1920

Cominciamo dall'inizio. Per semplicità, immaginiamo che metaforicamente il museo sia la nostra «grande casa», dove una società conserva i tesori del passato per portarli avanti nel futuro, tesori che nessuno è in grado di custodire in privato. Visto in questo modo, mentre il mio poster dei Beatles a casa è il mio, il Caravaggio di Brera è il Caravaggio di tutti.

La «nostra» grande casa, un luogo dove «noi» dovremmo sentirci tutti a casa. Ma a che cosa si riferisce questo «noi»? Come possiamo fare in modo che tutti si sentano «a casa» nella nostra grande casa, e che i tesori che custodiamo rappresentino i ricordi di tutti? Fare questo significa due cose: 1) Accessibilità, ossia che la nostra grande casa sia accessibile a tutti, e che nessuno si senta come se non ne facesse parte, e 2) Diversità, ossia che la nostra grande casa contenga anche tesori che appartengono a tutte le parti della comunità, non solo quelli raccolti storicamente da chi ha gestito il museo, il suo Consiglio di amministrazione, il direttore, i curatori e i donatori.

Come tutte le città internazionali, Milano è estremamente multiculturale, e comprende consistenti comunità di russi, coreani, cinesi, somali, senegalesi, nigeriani, brasiliani e americani, oltre al già ricco mix di nazionalità europee e, naturalmente, anche italiani. Ma tutti si sentono davvero «a casa» a Brera, probabilmente il più importante museo d'arte della città? In generale rispondiamo in modo compiaciuto, come sicuramente tutti quelli che conosciamo si sentono perfettamente a casa loro – bianchi, borghesi, europei ben istruiti non si sentono alienati quando vengono a visitarla. Ma anche una breve riflessione ci costringe a rispondere di no.

Il museo, che ha una ricca collezione di opere d'arte italiana, in gran parte a tema cristiano, in realtà non è sentito come la propria casa della stragrande maggioranza dei milanesi. Mentre i nuovi cittadini sono invitati a diventare più «come noi» aggiungendo Caravaggio alla loro esperienza culturale di assimilazione, non c'è molto nel museo che suggerisca un rispetto per altre culture, altre religioni o altri patrimoni. Come i pesci nell'acqua, chi si trova in posizione di superiorità non è consapevole dell'esclusione sistemica e del fatto che la nostra «grande casa» non è la casa di tutti nella nostra comunità. Come potenti uomini bianchi, protestiamo che non facciamo distinzioni di colore, e che le nostre collezioni sono universali, e appartengono a tutti, quando in realtà appartengono solo ad alcuni.

Come possiamo fare in modo che tutti si sentano a casa loro nel museo? Come si fa a far sentire la voce della comunità nel museo, soprattutto in termini di governance? Come vengono influenzate le decisioni del museo, su quali siano gli orari più opportuni per l’apertura o su che cosa collezionare, dalle esigenze e dai desideri del pubblico, a cui il museo «appartiene»?

Al momento la risposta è che il pubblico non ha voce in capitolo nel museo.

I «lavoratori» sono rappresentati dai loro sindacati, e la loro voce è estremamente forte. Lo Stato, nella persona del Ministro e del Segretario generale, è rappresentato da leggi, norme e circolari che stabiliscono la politica nazionale del museo, ma che raramente tengono conto della situazione locale – cioè del pubblico effettivo del museo. La direzione è rappresentata dal Direttore, dal Collegio, dai Revisori dei conti e dal Comitato scientifico, che rappresentano i rispettivi ruoli istituzionali ma non il pubblico in visita. Gli sponsor hanno voce, anche se in Italia sono molto deboli, a seconda di quali iniziative scelgono di finanziare e quali no.

In fin dei conti, non esiste un meccanismo formale che consenta al pubblico di esprimere le proprie esigenze, e i meccanismi informali sono in gran parte ad hoc e incoerenti. Che cosa si può fare per rimediare a questa situazione, senza cadere nella «trappola della rappresentazione» che limita l'input di gruppi specifici a categorie predefinite invece di riflettere la fluidità e la diversità dell'identità della comunità. Ad esempio, quando un avvocato coreano, madre di due bambini sposati con un italiano, viene invitato in un comitato per discutere di una mostra di artigianato coreano in una mostra, parla come coreana, madre, avvocato o come nuova cittadina? Rappresenta davvero solo la comunità coreana?

Paradossalmente mi sembra che per decenni abbiamo focalizzato la nostra attenzione sul punto sbagliato: i visitatori. Le entrate dei visitatori, il numero dei visitatori, sempre più visitatori come misura della qualità del museo e del suo successo. Ma quando si tratta di inclusione, di diversità, di accessibilità il concetto di visitatore sembra inadeguato rispetto a quello di utente, di abbonato, di socio. Il visitatore è un visitatore solo in virtù di una presenza transitoria al museo, un atto casuale senza alcun impegno o risultato necessario. D'altra parte, se qualcuno decide di iscriversi a ciò che un museo fa (nel museo, nella comunità, online) e non solo a ciò che ha, o decide di diventare socio della comunità del museo, dobbiamo tenere conto di come il museo serve i suoi soci nel tempo, non solo una volta, durante il momento della visita.

Un visitatore «esiste» come conseguenza di una singola visita, mentre un socio implica che ci sia un impegno, per quanto occasionale. L'impegno è il centro dei valori del museo, lo riporta al cuore dell'identità, lo allontana dai concetti di «leisure industry» (industria del tempo libero), di «edutainment» (intrattenimento educativo), di «diversivo» e da tutte le logiche dell'industria turistica che hanno lentamente eroso il reale valore del museo negli ultimi decenni. Bandire la nozione stessa di visitatore e sostituirla con quella di abbonato/membro, e vendere abbonamenti/tessere associative che includono l'ingresso al museo come uno dei vari vantaggi, potrebbe essere la chiave per ricollegare il museo a una comunità molto più ampia, e potrebbe aprire la strada a tutta la comunità per avere una voce reale nella governance del suo museo, la sua «grande casa».

Oltre a dirigere un museo nazionale, sono anche direttore di una delle Biblioteche nazionali italiane. Le biblioteche e i musei sono sempre stati «gemelli diversi», condividendo una storia comune, valori comuni e pratiche spesso simili. Per molti decenni, in concomitanza con la crescente enfasi sul turismo di massa e sui blockbuster, i politici hanno fatto pressione sulle biblioteche perché diventassero più simili ai musei, fino a suggerire le tariffe d'ingresso e il turismo bibliotecario, iniziative alle quali si è felicemente resistito. Ora, sulla scia della crisi Covid e della quasi distruzione del turismo di massa, è chiaro che i musei dovrebbero diventare più simili alle biblioteche. Questo cambiamento è coerente con l'argomentazione sopra delineata, e le biblioteche mostrano già come un modello di appartenenza potrebbe funzionare anche per i musei.

Le biblioteche sono gratuite per il pubblico, e contano gli utenti, non i visitatori. Ogni utente - senza pagamento - deve diventare «membro» della biblioteca ottenendo una tessera della biblioteca. Questo semplice atto rappresenta un impegno da parte dell'utente assente nell'acquisto di un biglietto per un museo. L'utente è già considerato competente e intenzionale (sa leggere e ha un'idea di che cosa leggere) e il personale della biblioteca fornisce servizi per preparare meglio l'utente a trovare quello che cerca – e anche quello che non cerca! L'uso della biblioteca non è definito né soddisfatto da una visita alla collezione fisica – le biblioteche forniscono un'ampia varietà di servizi online, tra cui l'accesso a libri, bibliografie, cataloghi ecc. La diversità è una parte fondamentale della collezione e della strategia di acquisizione di una biblioteca.

C'è un settore in cui sia le biblioteche sia i musei falliscono completamente, ed è quello di dare una voce reale alla comunità che serve in termini di partecipazione alla governance dell'istituzione. I visitatori non hanno gli strumenti per esprimere il loro punto di vista al di là del libro degli ospiti, se ce n'è uno, non più di quanto gli spettatori di una partita di calcio abbiano un ruolo nella gestione della loro squadra. Ma i soci lo fanno. Hanno riunioni annuali, comitati, gruppi di discussione, molti modi possibili per esprimere la loro voce come soci. La diversità della base dei soci assume un ruolo di primo piano nella gestione del museo in questi incontri in un modo che non era tale – e forse non poteva essere tale – per i semplici visitatori del museo.

E se tutti sono obbligati a diventare soci per poter accedere al museo, potenzialmente, tutti possono avere voce in capitolo: incontri regolari tra il Consiglio di amministrazione e i «soci» del museo in cui il pubblico può esprimere la propria opinione, anche se inizialmente in forma non vincolante. Le domande chiave per il pubblico potrebbero essere: che cosa raccogliere; quali sono gli ostacoli all'accessibilità; gli orari di apertura, le possibili attività, gli eventi, i programmi. Rendendo obbligatoria la consultazione con i soci del museo (in precedenza solo visitatori) per il Consiglio di amministrazione, si potrebbero attuare e valutare nuove politiche. I soci potrebbero ottenere uno o più posti nel Consiglio del museo, per garantire che la diversità della comunità sia meglio rappresentata.

Niente di tutto ciò è nuovo. L'idea di un museo basato sulla comunità può essere fatta risalire ai primi musei nati dalla Rivoluzione Francese, e letta negli scritti di John Cotton Dana e John Dewey. Tuttavia, sulla scia del lockdown causato dal Covid e dell'eruzione spontanea di Black Lives Matter in America e Europa, potrebbe essere il momento di tornare al futuro, dove il museo vale molto più di una visita.

Il Museo deve essere un luogo dove la ricerca dei beni culturali, sui documenti, serva a formare la coscienza per una azione di sviluppo o trasformazione dei sistemi sociali per rendere l’uomo libero in quanto informato. Un luogo di impegno, non di evasione o di isolamento o di separatezza. [Franco Russoli, 1977]

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