L’orgoglio di esserci di nuovo. Piotrovskij | Ermitage

ARTPRIDE | «Molto è cambiato e molto cambierà nella fruizione dei musei e dell’arte»

Michail Piotrovskji, 75 anni, è dal 1990 direttore del Museo Statale dell’Ermitage di San Pietroburgo
Alessandro Martini |  | San Pietroburgo

Chiuso al pubblico dal 18 marzo, l’Ermitage riaprirà «non prima di metà luglio». È un museo globale, frequentatissimo dai turisti (che vi trovano icone assolute come l’orologio «Il pavone» e le mummie egizie, il «Ritorno del figliol prodigo» di Rembrandt e la «Madonna Benois» di Leonardo); ma, tradizionalmente, è anche un museo che intrattiene un dialogo stretto con il suo «pubblico di prossimità». Anche per questa ragione, le sfide sono molte, come ha ben presente il suo storico direttore Michail Piotrovskij, alla guida del museo statale addirittura da trent’anni, fin dal 1990 quando morì il precedente direttore: suo padre Boris Piotrovskij.

Come si presenterà l’Ermitage alla sua riapertura dopo la quarantena?

Dopo la quarantena l’Ermitage è lo stesso, forse un po’ più «riposato» e pronto a nuovi progetti ed eventi. Il numero dei visitatori al museo verrà ridotto (nel 2019 sono stati 4.956.529, Ndr) e abbiamo definito un itinerario che durerà circa due ore. Le persone devono procedere senza superarsi né incrociarsi. Cercheremo di conservare il carattere universale del museo anche in queste condizioni. E stiamo anche preparando le nuove esposizioni, sebbene queste non siano mai state tra le priorità del museo. La prima sarà la personale del celebre pittore cinese Zhang Huán, allestita durante la pandemia e che non abbiamo ancora avuto autorizzazione ad aprire. Nel frattempo l’artista ha creato alcune opere nuove sull’epidemia globale: la mostra risulterà quindi dedicata sia all’Ermitage sia alla pandemia. Al contempo si sta completando una nuova versione dell’installazione creata da Alexander Sokurov sul «Ritorno del figliol prodigo» di Rembrandt (a proposito, il «Figliol prodigo» ci sarà anche tra le opere di Zhang Huán). Stiamo preparando anche una specie di sacra rappresentazione intitolata «La Flora», un mix di teatro, musica e pittura. Il nome deriva da due famose «Flora» dell’Ermitage, quella di Rembrandt e quella di Francesco Melzi. Alcuni autori europei, americani e russi scriveranno saggi sui quadri dell’Ermitage, mentre compositori, musicisti e artisti metteranno in scena piccole pièce che verranno mostrate dentro il museo. Anche in questo caso ci sarà il «Figliol prodigo» di Rembrandt. È il tema che unirà questi tre eventi principali dopo la quarantena.

Il Coronavirus ha cambiato l’Ermitage? Cambieranno le modalità di visita e chiuderete sale?

Sì, il carattere delle visite di uno dei più frequentati musei del mondo cambierà. Quando il museo veniva visitato da tanti turisti (fino a cinque milioni all’anno) tutti si lamentavano dicendo: «Sarebbe bello se ci fossero meno persone!». Ed ecco che ora saranno di meno, molto meno. Credo che nella prima fase potremo ricevere non più di mille persone al giorno, forse anche di meno. D’ora in poi l’entrata al museo sarà meno «immediata», in quanto il biglietto dovrà essere acquistato in anticipo e non semplicemente dopo aver fatto una lunga fila. Ma in cambio si potrà girare il museo piu tranquillamente. E si capirà se il fatto di stare in mezzo a tanta gente sia importante per ottenere una piena soddisfazione. In realtà non è una domanda retorica. Il numero delle persone fa parte delle impressioni sul museo. Alla pari dell’ambiente museale, ovvero gli interni, i panorami dalle finestre, così anche le persone che lo frequentano sono parte integrante dell’esperienza museale. L’Ermitage è anche tutto questo. Nel Palazzo d’Inverno i visitatori saranno «guidati» al primo piano: lungo le finestre a sinistra e poi a destra, e viceversa. Ci saranno così due flussi di persone, due giri. Si potrà visitare la maggior parte dell’Ermitage in due ore, dopodiché verrà dato accesso a un nuovo gruppo. Di prima mattina ci saranno tre gruppi, poi altri quattro, con intervalli tra di loro durante i quali il museo sarà pulito, disinfettato, ventilato e preparato in modo da diminuire il rischio di contagio per i visitatori, che comunque persiste. Faremo in modo che le persone non si perdano all’interno del museo (anche se non è facile nel caso dell’Ermitage), chiudendo delle sale. La parte del museo che rimarrà chiusa al pubblico continuerà a essere raccontata da «Ermitage Online», che proseguirà con le attività iniziate durante la chiusura al pubblico. L’Ermitage sarà attivo sul suo sito e in tutte le sue piattaforme digitali. Senza dubbio sarà una nuova esperienza, del tutto diversa da ogni precedente visita all’Ermitage.

Prevedete regole speciali per le sale più affollate?

Cercheremo di evitare gli assembramenti e l’affollamento. Ci sono sale enormi nell’Ermitage dove possiamo stabilire e controllare la distanza tra i visitatori con l’aiuto di assistenti. Nei salotti piccoli, in cui può entrare solo una persona alla volta, il flusso verrà regolato chiudendo le sale che si trovano alla fine o ai lati di un corridoio. In realtà queste regole e limitazioni saranno provvisorie e credo che verso dicembre potremo tornare al vecchio regime. Al momento stiamo considerando di variare gli schemi operativi ogni quindici giorni.

Dal punto di vista finanziario quale impatto ha avuto questo periodo d’emergenza?

Sicuramente i ricavi del museo si ridurranno drasticamente e questo non ci permetterà di mantenere i livelli abituali degli introiti da biglietteria. Gli incentivi dello Stato dovranno essere aumentati. Con il Ministero della Cultura intendiamo rivolgerci al Governo con la richiesta di un finanziamento supplementare per assicurare certe agevolazioni indirizzate a una parte della popolazione. Cercheremo gradualmente di ricevere più persone non protette socialmente: bambini, studenti, famiglie numerose e molti altri.

Quali sono le sue aspettative per il 2020 e dopo?

È difficile prevedere quanti visitatori ci saranno nel 2020: da un lato, la gente ci dice che vorrebbe visitare l’Ermitage e, dall’altro lato, siamo consapevoli (anche per l’esperienza delle altre sedi dell’Ermitage già aperte) che poi prevalgono altri interessi e urgenze. Per il 2021 credo che il numero di visitatori si rialzerà a qualche milione. Sicuramente la vendita anticipata dei biglietti limiterà e regolerà il numero di persone, inoltre creerà un’atmosfera di visita più rilassata. Un’esagerata quantità di visitatori ha generato l’abitudine di visitare il museo passando velocemente da un opera all’altra, cercando di vedere il più possibile. Ma ben sappiamo quanto sia importante la «lettura lenta» per l’arte e la cultura in generale. Poco tempo fa abbiamo realizzato un film dedicato proprio a questa lettura: dura 5 ore e 20 minuti ed è un lento movimento attraverso il museo, slegato da spiegazioni irrilevanti. Credo che in futuro l’esperienza museale avrà il carattere di una lenta lettura, resa più densa e interessante grazie alle nuove tecnologie (come esperienze online), per mezzo di diverse rappresentazioni teatrali virtuali che completeranno l’esperienza dei sensi. Queste modalità daranno la possibilità di intendere al meglio il museo mentre ci si trova all’interno e, similmente a un’esperienza culinaria, «sostituiranno il fast food con un cibo prelibato». È facile capire il gusto degli hamburger, mentre per gustare un’ostrica si deve compiere una conoscenza più approfondita.

Con l’epidemia è cambiato il rapporto verso i musei e l’arte in generale? Si rischia la fine dell’accessibilità dell’arte?

Sicuramente sorge la domanda: l’arte sarà ancora per tutti? L’arte dovrebbe essere accessibile per chiunque, ma non a scapito di altri. Quando le folle irrompono nel museo, gli amatori dell’arte e delle visite tranquille e lente non possono comunicare con l’arte nelle condizioni a loro ideali, ed è anche questo fattore a rendere l’arte meno accessibile. Sì che deve essere accessibile, ma in quel modo e in quel senso che le persone lo possano capire e cogliere attraverso i propri sensi, sempre variabili. Senza dubbio ci vorrà del tempo per educare il pubblico. L’Ermitage ha vissuto il periodo sovietico quando il motto generale era: l’arte dev’essere accessibile a tutti, l’arte esiste per tutti. Inizialmente le persone venivano raccolte in gruppi a cui veniva spiegato e raccontato ciò che poi avrebbero visto durante l’escursione, dopodiché cominciavano a capire l’arte. Temo che ci aspetterà un nuovo periodo simile a quello, sebbene oggi tutti credano di sapere tutto. In realtà dovremo educare e insegnare a capire l’arte più profondamente di prima. I risultati della pandemia ce lo richiedono. Questo periodo selezionerà le persone, comprese quelle che amano veramente l’arte e sono pronte a sacrificare qualcosa per essa.

Quale futuro attende le grandi mostre internazionali? È la fine di esposizioni «blockbuster»?

Come tanti altri musei, l’Ermitage ha sempre fatto grandi mostre internazionali ma certo ora sarà più complicato. La pandemia ha mostrato come le frontiere possano chiudersi all’improvviso, lasciando molte opere «incastrate» nelle mostre temporanee di altri musei e quanto sia problematico recuperarle. Verranno ridotte notevolmente le autorizzazioni per l’esportazione di opere da parte del Ministero della Cultura, della Dogana e dei musei stessi. E diminuiranno di conseguenza le grandi esposizioni «blockbuster». È da notare, però, che la comunità museale ha più volte sostenuto la volontà di limitare i «blockbuster». Certo, le fanno per il pubblico, fanno girare tanti soldi, ma credo che riguardino piuttosto la sfera del rito e quello della pubblicità, piuttosto che una vera passione per l’arte. Di solito di fronte ai grandi problemi economici i musei smettono di realizzare questo tipo di esibizioni e organizzano ottime mostre serie, ma il pubblico le chiede ugualmente. In generale il «blockbuster» è più vicino allo show business che a una mostra. Non spariranno del tutto e torneranno di sicuro, ma credo che verranno affiancate da mostre pensate, intelligenti, scientificamente eleganti, che aiuteranno a capire sempre di più che cosa cerchiamo dall’esperienza museale. È importante sia per chi ha facile accesso al museo, sia per chi viene da lontano.

Come diventeranno i musei dopo la crisi?

Per tutti sorge la domanda: quali lezioni l’umanità e i musei ricaveranno di questa crisi? Credo che impareremo due tipi di lezioni. Il primo è che l’arte, la cultura e i musei sono un buon farmaco, un farmaco psicologico non contro la pandemia, ma per quel male psichico che la pandemia sta generando, come l’isteria, il panico, la paranoia. Tutto questo può essere curato dall’arte, dai musei. Le nostre conversazioni, gli incontri con le persone online dimostrano che tante persone possono migliorare la loro vita comunicando con l’arte, imparando qualcosa di nuovo. La seconda lezione è che sono i musei a creare i ponti tra le culture e le persone. Uno dei risultati della pandemia, non in campo culturale ma in senso più generale, è che le persone e i Paesi sono tornati a isolarsi, e a chiudere i propri confini. Potrebbe sembrare a qualcuno che sia meglio tenere le frontiere chiuse per lungo tempo. Viviamo una fase in cui molti ponti tra le nazioni sono bloccati, ma qualcuno vorrebbe aumentare ulteriormente le nostre connessioni reciproche. I ponti della cultura, però, hanno una grande importanza e spero che il valore degli stessi diventi ancora più sentito. Lo scambio e la comprensione tra le culture sono indispensabili per un mondo integrato nel caso venisse meno l’integrità economica e politico militare mondiale. Anche in questo ambito crescerà l’importanza della cultura e sorgerà la domanda su come esisteranno i musei nelle nuove circostanze, come sapranno adattarsi, come si ristruttureranno. Io credo che i musei non abbiano bisogno di una riformulazione. Tutti i musei nel mondo, tutta la comunità museale nel mondo (dalla Russia all’Italia, dalla Francia alla Gran Bretagna fino agli Stati Uniti e alla Cina) hanno dimostrato di essere pronti a sopportare varie e difficili prove, anzi, di poter aiutare le proprie e altre nazioni a superare le circostanze più ardue. E non sono solo quelle dovute alla pandemia, perché numerose altre prove di resistenza aspettano ancora l’umanità nei prossimi tempi. L’umanità sarà nuovamente chiamata a ricostruire i suoi rapporti con la natura. Anzi, a comprendere la sfida della natura. Ugualmente dovremo renderci conto della complessità della cultura. Credo che i musei aiuteranno la gente a capire che il mondo attorno a noi è complesso e non sopporta un rapporto semplificato del tipo «dammi, prendo, pago». Sempre più saranno necessari rapporti molto più complessi sia con la natura, sia tra di noi. Non è un problema puramente filosofico: è strategicamente importante per la sopravvivenza umana e credo che anche qui i musei sapranno trovare delle «ricette» oppure riusciranno a essere uno dei farmaci che aiuteranno l’umanità a sopravvivere.

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