La scommessa vitale è fondere antico e contemporaneo

La storia dei 45 anni di attività dello Studio Trisorio a Napoli

Julian Rosefeldt «Manifesto»
Stefano Causa |

Tutti hanno capito che Napoli, la città più cool del mondo come dicono soprattutto quelli che non ci abitano, è un prodotto che si vende sempre meglio. Anche il centro storico, tenutosi a prudente distanza dal mare, non era mai apparso così fotogenico e adescante come quando, nel 2016, il siciliano Dolce e il milanese Gabbana lo scelsero come location per la collezione alta moda autunno-inverno. E finalmente sulle bancarelle di via Benedetto Croce sono riapparsi anche i flaconcini con «l’aria di Napoli». Si aggiungia che è diventata una città tutta da leggere. Leggi Napoli e poi…

Certo dei libri ambientati nella città partenopea solo una minoranza vale l’acquisto; il resto è tutta arte di riscrivere. Per questo sarebbe auspicabile una sospensione temporanea di saggi e fiction su Napoli. Non parliamone più, limitiamoci a viverla, che pure non è affare da poco. Qualche amica geniale si offenderà ma, se proprio si deve, proviamo a catturare Napoli senza nominarla; partendo da quell’osservatorio privilegiato sulla città che, da mezzo secolo, è la storia dell’arte.

Ci riesce un grosso libro, Studio Trisorio. Una storia d’arte 1974-2019 (Electa) che, tra testi e centinaia di immagini rare, è una miniera per cominciare a familiarizzare con le accelerazioni, le stagnazioni e le ritrosie disperanti di una ex capitale. Un’amica mi dice spesso: «Napoli è un capolavoro di arte contemporanea, mica c’è solo la pittura caravaggesca!», ma la mia amica è piemontese: vallo a raccontare ai milioni di napoletani che usufruiscono senza saperlo del metrò dell’arte, che abitano tra musei e installazioni all’aperto senza accorgersene e che, fin dagli anni 1970 negli spazi aperti da Lucia e Pasquale Trisorio sulla riviera di Chiaia, avrebbero potuto incontrare Beuys, Ceroli, Mimmo Jodice, Ghirri o Mario Giacomelli.

Per non citarne che alcuni. Dall’ottobre ’74 prende il via ufficialmente una vicenda di passione, coraggio e felicità domestica che ha pochi eguali nella storia recente; sicuramente in quella napoletana. La Napoli degli anni di piombo? Un mannello di grandi cose da cogliere, a macchia di leopardo, dentro o, preferibilmente a dispetto, della città: tornano alla mente il «Masaniello» con Mariano Rigillo nel cortile della Certosa di San Martino, la «Gatta Cenerentola» di Roberto De Simone, il primo Edoardo Bennato, il jazz esplorativo dei Napoli Centrale, il giovane Pino Daniele, Leo de Berardinis che mischia Totò e Amleto, il cinema di Salvatore Piscicelli, le settimane di «Musica d’insieme» a Villa Pignatelli, la galleria di Lucio Amelio in Piazza dei Martiri, Raffaello Causa che invita Burri nel 1978 a piazzare il cretto Nero nel Museo di Capodimonte vicino a Caravaggio e, naturalmente, i Trisorio.

La galleria di Pasquale e Lucia aprì sei mesi dopo l’epidemia di colera regalataci dal vibrione annidatosi nelle cozze importate dalle coste tunisine (agosto 1973); a fine decennio s’inaugurava a Capodimonte la mostra «Civiltà del ’7oo», chiusasi in fretta per il terremoto dell’80. La regola di un passo avanti e due indietro come nelle processioni spagnole sembrava condizionare ogni progetto partito o partorito qui. E l’arte contemporanea tornava sempre utile a far da cemento o, date le proverbiali resistenze del contesto, da cemento armato.

Quanto ai benefici su Napoli di questo accavallarsi di intelligenza creativa, tutto sta a intendersi. Perché da secoli la vita cultura napoletana è un rosario di gesti irrelati di cui è difficile valutare la ricaduta sugli abitanti. Alcuni di quelli che avevano provato a fare l’aggancio con la città sono caduti come nel domino: Causa morì nel 1984. Amelio dieci anni dopo. Trisorio nel 1992. E ormai se n’è andato anche il caro Gillo Dorfles, che diceva, bontà sua, che Napoli è il cervello d’Italia.

Ma a partire dagli anni ’70 dai Trisorio accaddero cose che contribuirono a far impennare il livello. Due tra le tante: uno dei manifesti del decennio, Beuys che nel 1971 avanza con la scritta «La rivoluzione siamo noi» fu ideato fuori Villa Orlandi ad Anacapri, da poco riadattata dai Trisorio a sede di mostre (ve la immaginate la rivoluzione all’ombra dei faraglioni?). Marina Miraglia venne a raccontare le foto di un pittore come Michetti ripresentando da un’angolazione fertile e nuova il transito dell’Italia figurativa dall’800 al ’900: questo basterebbe a dimostrare come, anche per i Trisorio, la scommessa vitale per Napoli, diciamo pure la sola, fosse fondere antico e nuovo in un contatto e un contratto vicendevolmente fruttuosi.

Scomparso Pasquale nel ’92, la declinazione squisitamente femminile dei Trisorio, specie nella versione sensibile e caparbia di Laura, ha raddoppiato gli sforzi con proposte eccellenti e sempre poco allineate. Altre mostre e altre stanze tra Roma (2004-11) e Napoli. Ma il frutto più alto di questi rilanci rimangono, dal 1996, le ottobrate di «Artecinema» che hanno contribuito a indirizzare, nel passaggio televisivo dall’analogico al digitale, il settore della docufiction sull’arte e il suo farsi. Casa Trisorio 1974-2019. E ora? Come cantava Sinatra: the best is yet to come. Il meglio deve ancora venire.

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