Un dettaglio dell’installazione «Balete» (2022) di Leeroy New.

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Un dettaglio dell’installazione «Balete» (2022) di Leeroy New.

A Sidney la Biennale è un ecosistema di possibilità

La 23ma edizione diretta dal colombiano José Roca lega arte ed ecologia con 80 artisti, 340 opere, 400 eventi e 5 sedi

Immaginate una Biennale come l’arrivo di un fiume, là dove si apre al mare e crea un ecosistema sofisticato e plurale di terra e acqua. Immaginate i luoghi espositivi come delle wetlands, delle zone umide, ognuna diversa eppure votata alle altre. È la «rīvus», la 23ma Biennale di Sydney (fino al 13 giugno) diretta dal colombiano José Roca.

Nella città australiana l’apertura è stata annunciata per tre sere di seguito dalla Great Animal Orchestra, il progetto del musicista visionario Bernie Krause e dei londinesi United Visual Artists (Uva), prodotto dalla Fondazione Cartier. Le vele dell’Opera House si sono animate con un gioco visivo che ha tradotto i suoni di 15mila specie registrati in 50 anni. Non poteva che essere così l’avvio di una Biennale che ha puntato tutto sull’incontro fra arte ed ecologia.

«rīvus» mettein scena un mondo d’acqua e i conflitti tra esistenza e profitto, potere e vita. Ma attenzione, ci dice José Roca: «Non è una Biennale sull’acqua, come potrebbe suggerire il titolo, ma un lavoro collettivo sul delta, fisico e concettuale, inteso come ecosistema di possibilità. Le acque profonde, quiete, possono essere metafora di repressioni che salgono in superficie, mondi apparentemente immobili ma pieni di vita e di resistenze».

La mostra coinvolge 80 artisti internazionali, 340 opere d’arte e 400 eventi in cinque spazi espositivi: Art Gallery of New South Wales all’Arts, Cultural Exchange, Museum of Contemporary Art Australia, National Art School e Pier 2/3 nel Walsh Bay Arts Precinct. Tra essi raggiungibili a piedi in 15 minuti.
José Roca ha portato a Sydney una visione ecologica dell’arte, iniziata a Bogotà, sua città di origine, dove dirige FLORA ars+natura, uno spazio d’arte contemporanea, centro di studio e residenza di artisti; nella capitale colombiana per un decennio ha curato i programmi d’arte del Museo del Banco de la República (MAMU), tra i più prestigiosi nel continente. È stato curatore per l’arte latinoamericana alla Tate di Londra (2012-15) e ha co-guidato la Biennale di San Paolo nel 2006.

Quando è stato selezionato a Sydney nel 2019 ha deciso di rimanere nella città australiana «di non fare le toccate e fughe che si fanno di solito. Volevo capire, calarmi nella città, vivere il Paese. Per questo ho anche scelto un team curatoriale che fosse internazionale ma basato qui». Non sapeva ancora che la pandemia sarebbe arrivata a confermargli la scelta, con due lunghissimi lockdown.

E gli artisti? «L’idea è stata quella di scegliere chi sta lavorando da tempo su questi temi, magari poco conosciuti nell’arena globale, ma che hanno una ricchezza di sguardo e un talento che merita di emergere».
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Così ci si imbatte in una serie di installazioni su grande scala, come gli arazzi sovrastanti di Kiki Smith o la struttura di bambù di 600 metri quadrati degli australiani Cave Urban o le sculture digitali su muri led 6x6 metri dell’irlandese John Gerrard.

Poi si scoprono le poetiche visive delle trame organiche: sono i ritratti fotografici prodotti con fotosintesi degli inglesi Ackroyd & Harvey, i tappeti d’erba della tedesca Diana Scherer, i terreni-coperte con i fondi di caffè dell’israeliano Gal Weinstein o le bioplastiche di alghe e muffe realizzati da Jesse French. E ancora, i tessuti con filati di latte della colombiana Juliana Góngora, che lavorando con scienziati e tessitori tradizionali ha imparato a maneggiare un materiale per sua natura instabile e fragile.

Sono solo alcuni dei tanti lavori frutto di un corpo a corpo con l’ecosistema, con cui gli artisti intrecciano strategie di cura e di osservazione, tecnologia e visioni, oltre che affidarsi a saperi ancestrali: «Quando si parla di ecosistemi non si può non incrociare la questione dei popoli originari, qui in Australia come in America Latina. Negli ultimi anni le comunità native hanno assunto un protagonismo inedito, man mano che l’allarme ambientale è diventata un’urgenza globale
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Queste comunità native vivono da sempre la natura come un organismo vivo, sentendosene parte. Sanno viverlo senza distruggerlo e hanno conoscenze e tecnologie che sono sempre state sottovalutate o disprezzate: penso alle straordinarie strutture realizzate dagli aborigeni per raccogliere l’umidità in pieno deserto».

Da qui il lavoro stretto con le comunità locali e indigene che José Roca ha voluto come parte fondamentale della sua Biennale, assieme a tantissimi artisti originari delle first nations come vengono chiamate qui. Con loro, emergono con forza anche tutti i conflitti, «a cominciare dal diritto all’acqua, che in tanti Paesi continua a essere privatizzata o sottratta alle esigenze vitali degli abitanti a favore del profitto».

Un tema che, ad esempio, la slovena Marjetica Potrč interpreta in disegni e video realizzati assieme a Uncle Ray Woods, un attivista del popolo Wiradjuri: entrambi sono impegnati in una battaglia per i loro fiumi, il Soča in Slovenia e il Lachlan in Australia.

Il venezuelano Sheroanawe Hakihiiwe, originario di una piccola comunità Yanomami lungo il grande fiume Orinoco, traspone su fogli di carta (fatti a mano con fibre autoctone) i segni e i simboli ancestrali dipinti solitamente sui corpi.

Tutto questo presuppone un cambio di paradigma per l’arte contemporanea: «Cambia la percezione del tempo e il concetto di opera d’arte», sottolinea José Roca. Da qui passa anche «la riscoperta della materialità dei lavori, la labilità del confine tra scienza, manifattura e arte, l’idea di permanenza a favore di opere che mutano, vivono, decadono e si decompongono».

La Sydney messa in mostra da José Roca vuole essere «un dispositivo, un’esperienza corporea, sensoriale, materiale che per essere compresa fino in fondo chiede di essere attraversata e vissuta».

«Untitled» (2022) di Living Seawalls. Courtesy Living Seawalls

«Transience» (2019) di Cave Urban. Courtesy the artist. Foto di Juan Pablo Pinto

Fabio Bozzato, 14 aprile 2022 | © Riproduzione riservata

A Sidney la Biennale è un ecosistema di possibilità | Fabio Bozzato

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