In un luogo espositivo che racchiude la memoria di una tradizione importante per la Serenissima, il Museo Storico Navale, è allestito il Padiglione della Repubblica del Kazakhstan. Per il secondo anno, il Paese a cavallo tra Asia ed Europa è presente a Venezia con un progetto espositivo, «Jerūiyq: Journey Beyond the Horizon», a cura di Danagul Tolepbay e Anvar Musrepov, che si ispira alle antiche leggende della regione e a quel «Jerūiyq», terra promessa, che il filosofo della steppa Asan Kaigy ricercava per i popoli nomadi afflitti da fame e malattie. Quel tentativo utopico, come molti altri di realizzare un futuro migliore nelle steppe kazake, risuona ancora più triste oggi, alla luce di eventi che hanno segnato il futuro del Kazakhstan, dai crateri generati dagli esperimenti nucleari all’impoverimento del mare d’Aral sino all’incontro del popolo nomade con la durezza e la disillusione generata dalla modernità.
L’esposizione all’interno del padiglione rivela come l’utopia, l’aspirazione al cambiamento e all’affrancamento dal pensiero dominante imposto, sia dagli anni Settanta una prerogativa della migliore espressione artistica nazionale. A partire dall’ultimo trentennio del secolo scorso, il percorso presenta opere dal sapore avveniristico come il progetto architettonico «Mobile Unit» (1979) di Saken Narynov edificio trasformatore composto da una serie di unità sovrapposte, come fossero tante piccole navicelle, per sostenere la vita umana in altri pianeti. La yurta, tipica abitazione dei nomadi kazaki, è fonte d’ispirazione per i diversi moduli abitativi e motivo di connessione tra il passato e il futuro del Paese. L’artista, che ha ricevuto nel 1981 un brevetto architettonico, non ha mai abbandonato l’idea di realizzare il suo progetto. Accanto alle sue opere, tra cui le suggestive sculture aeree in metallo, spicca l’installazione «Baikonur-2» di Sergey Maslov. Pioniere dell’arte contemporanea in Kazakhstan, la sua ricerca non era stato valorizzata dalla comunità artistica conservatrice dell’era della perestrojka ma oggi i suoi «racconti di nomadi spaziali», che si spostano con navicelle simili alle yurte, sono fonte di grande ispirazione per i creativi connazionali. Il suo lavoro, uno dei primi di fantascienza nel Paese indipendente e qua ricostruito per l’occasione, è una yurta modificata che pacifica estetica arcaica e futuristica, un tempo contrapposte dall’ideologia sovietica.
La seconda sala del padiglione è dominata dal dipinto monumentale di Yerbolat Tolepbai «Nuovo bambino. Rinascita» realizzato proprio in occasione della Biennale. Composto da 6 tele giustapposte, a formare un rettangolo di 300 x 600cm, la composizione proietta lo spettatore in uno spazio sospeso e destabilizzante in cui la figura stilizzata di un bambino occupa la posizione centrale. Un arcobaleno di elementi geometrici, triangolari, elissoidali, oblunghi, conici, sferici, spiralici, si innalza nella scena come a rappresentare un groviglio di ideologie di cui ci si vuole liberare (il 1986 è stato un anno fondamentale nella storia del Kazakhstan caratterizzato da scontri e proteste con l’esercito sovietico ai quali lo stesso Tolepbai ha partecipato). Nella stessa area un dipinto dello stesso autore, datato 1985, «Aqyr zaman. La fine del mondo», ha come soggetto l’apocalisse tradotta attraverso un linguaggio pittorico più classico che se da una parte rammenta certa pittura di genere dei tempi passati dall’altra utilizza codici misteriosi, frutto di una personalissima immaginazione. Mentre si contemplano le visioni catastrofiche e allo stesso tempo ammiccanti a un nuovo futuro possibile, suoni avvolgenti e cadenzati avvolgono lo spettatore.
«La presenza», opera di sound art di Lena Pozdnyakova e Eldar Taghi, associa suoni appartenenti al mondo naturale alla tradizione vocale kazaka. L’installazione aerea ottenuta con un mix di suoni concreti e digitali vuole mettere in evidenza l’interdipendenza tra l’uomo e l’ambiente sfidando la comune visione antropocentrica. Passato e presente, reale e sintetico, natura ed artificio raggiungono un’inedita sintonia in una partitura in cui emerge il canto gutturale legato ai rituali sacri della tradizione. L’ultima sala del percorso ospita due tempere su tela di Kamil Mulashev, entrambe del 1978. Quando l’artista ancora studiava, il suo Paese era sotto la guida sovietica e aveva risentito dell’entusiasmo diffuso per la scoperta di nuovi pianeti (l’uomo era sbarcato sulla Luna per la prima volta nel 1969). Le sue composizioni, «Sopra il deserto bianco» e «Gioventù», sembrano tratte dalle illustrazioni di un qualche romanzo fantascientifico quanto da storyboard di pellicole anni Ottanta come «Dune» o «Mad Max».
I dipinti fanno parte di un trittico, «Terra e tempo. Kazakistan». Come si intuisce, l’artista raffigura la steppa kazaka in una sua visione futura esprimendo ancora una volta la forte aspirazione utopica a suo tempo inseguita dal filosofo Asan Kaigy. A chiudere il percorso è un video di 25 minuti realizzato dal co-curatore del padiglione, Anvar Musrepov, anche artista. «Alastau» è il titolo dell’opera, termine che in lingua kazaka significa purificazione. In uno spettacolo di continua composizione e decostruzione dell’immagine, il video invita in un futuro lontano in cui neanche il sole esiste più. La pratica rituale ritorna centrale nella vita quotidiana e come in un gioco di corsi e ricorsi storici, i sopravvissuti ad un’ipotetica catastrofe riscoprono nomadismo e tradizioni. «Immagini e riferimenti profondamente radicati nella mitologia kazaka offrono la prospettiva di decolonizzare le narrazioni del futuro, creando una parabola mistica di fuga dalla morte», per dirla con i curatori.
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