Dal 23 aprile sino a fine luglio, l’opera «Dreaming Alcestis» della regista londinese Beatrice Gibson (classe 1978), tra i nomi più radicali dell’arte contemporanea internazionale, è esposta presso il Museo Civico di Castelbuono. Vincitore dell’Italian Council 2021, il film-installazione arriva nelle Madonie dopo essere stato presentato al British Art Show di Londra, allo Spazio Ordet di Milano e al Macro di Roma. Abbiamo intervistato la regista pluripremiata che ha scelto di vivere a Palermo.
La sua vita familiare entra spesso a far parte dei suoi film. Che ruolo hanno gli affetti familiari nel suo lavoro?
La famiglia è una figura chiave nel mio lavoro, principalmente perché penso che dovrebbe essere abolita! La mia versione di vita familiare contiene l’arte e la cura, la realizzazione di film, include la comunità, gli amici e le influenze, dai miei personaggi letterari preferiti alle madrine intellettuali fino alle guide ancestrali che mi stanno accanto quando lavoro. Non mi interessa la versione di famiglia rivolta verso l’interno, sognata dalla cultura maschile bianca: mi interessa la famiglia come paradigma dell’esperienza relazionale, come microlaboratorio di come essere, in relazione a sé e agli altri. Lo stesso vale per l’idea di maternità.
Si riferisce al suo lavoro usando la parola queer. In che modo i suoi film sono queer?
Il cinema queer non è semplicemente il cinema fatto da o su persone queer: il cinema può essere queer dal punto di vista formale, un cinema che non replica i modelli dell’industria mainstream predicati dalla cultura maschile bianca e dal privilegio. Il cinema queer è cinema politico, che fa parte di un progetto culturale attivista. È un cinema che sa che il mondo è molto più grande di lui.
Parliamo di «Dreaming Alcestis». Quando ha deciso di girare un film ispirato alla tragedia di Euripide?
Nel 2020 mi sono ritrovata, come tante altre, una madre lavoratrice, intrappolata in casa, nel bel mezzo di una pandemia. La Brexit era alle porte, il mondo sembrava crollare. Mio figlio, che all’epoca aveva sette anni, una mattina a colazione annunciò che la soluzione era fare un film, una tragedia greca. Aveva ragione! Le tragedie ritraggono mondi di indicibile violenza, come il nostro. Alcesti è la prima mortale ad avventurarsi negli Inferi, il primo personaggio femminile a intraprendere un viaggio epico. Si sostituisce al re, suo marito, offrendosi di morire al suo posto. Sembra un atto sacrificale, ma per me è pura libertà: se ne frega di tutto e se ne va. Così, abbiamo deciso di seguirla: siamo saliti in macchina e abbiamo guidato verso sud, da Londra a Palermo, fino alla punta più meridionale dell’Europa. Il mondo sotterraneo.
Perché proprio Palermo?
Per molti versi è stato come se fosse Palermo a scegliere noi e non il contrario. Palermo è un luogo talmente viscerale, con una realtà sociale, economica e politica così diversa da quella neoliberale nordeuropea e nordamericana in cui sono nata e che ho interiorizzato. Essere fuori da quella realtà è come respirare. Anche se a Palermo in qualche modo c’è la morte ovunque si guardi, è un luogo che ti insegna a vivere.
Alla scrittura di «Dreaming Alcestis» hanno partecipato il regista, nonché suo partner, Nick Gordon e la scrittrice Maria Nadotti. Com’è nata questa collaborazione?
Anche se «Dreaming Alcestis» è la nostra prima vera coregia, io e Nick abbiamo lavorato insieme a molti dei miei film. Abbiamo conosciuto Maria Nadotti grazie al nostro produttore Paolo Benzi. Nick ha detto fin dall’inizio che lavorare con Maria era come essere con Robert De Niro in «Mean Streets»: prende le tue idee e le fa esplodere! È stata una sorta di evocazione lynchiana.
Sta lavorando a nuove evocazioni?
A metà marzo ho iniziato le riprese di un lungometraggio per la Bbc a Parigi. È un film su una donna che, dopo un aborto, vaga nella notte andando incontro a varie cose, mentre sogno e realtà collassano.