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Rosalba Cignetti
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Bernard Arnault, presidente e amministratore delegato di LVMH – il colosso francese che controlla maison come Louis Vuitton, Dior, Fendi e Moët & Chandon – ha preso posizione pubblicamente a favore didell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea, utile a scongiurare un’escalation di dazi che metterebbe a rischio il mercato del lusso.
L’intervento non arriva solo da uno dei leader industriali più influenti al mondo, ma anche da una delle figure che più hanno investito nella relazione tra arte e impresa: LVMH è da anni tra i maggiori sostenitori della cultura, con sponsorizzazioni museali, premi d’arte, fondazioni e progetti architettonici come la Fondation Louis Vuitton di Parigi, firmata da Frank Gehry.
Difendere il lusso, per Arnault, significa anche tutelare un sistema fatto di artigianato, creatività, produzione culturale ed esportazione di valori estetici. Da qui la sua sollecitazione a Bruxelles affinché raggiunga un’intesa stabile con Washington, sul modello dell’accordo già siglato con il Giappone.
Arnault ha definito necessario l’accordo annunciato il 27 luglio durante un incontro tra il presidente Trump e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che stabilisce una tariffa uniforme del 15% su quasi tutte le importazioni europee negli USA. «Necessario» per evitare una guerra commerciale che avrebbe effetti devastanti per un comparto fortemente dipendente dal mercato americano. LVMH, da sola, genera circa un quarto del suo fatturato negli Stati Uniti. Un aumento dei dazi doganali, in particolare su beni di lusso, alcolici e prodotti iconici del made in France, metterebbe a rischio margini, distribuzione e investimenti strategici. «Come responsabile di un’azienda europea globale, ritengo fosse importante evitare un crollo. Questo accordo è un atto di responsabilità. Nell’attuale contesto geopolitico ed economico, è un buon accordo», ha dichiarato su «Les Echos».
L’intervento del tycoon francese arriva a margine di incontri politici con diversi esponenti di spicco del panorama europeo, tra cui la presidente italiana del Consiglio Giorgia Meloni e il leader del CDU tedesco Friedrich Merz. LVMH ha anche annunciato contromosse concrete. «Reuters» riferisce che il gruppo aprirà entro il 2027 in Texas un secondo stabilimento produttivo dopo quello inaugurato nel 2019. La mossa, spiegano fonti aziendali, ha una duplice valenza: consolidare la presenza industriale sul territorio americano e mitigare l’impatto di eventuali dazi sui beni importati. Il primo atelier texano, nonostante alcune difficoltà iniziali legate alla formazione della manodopera, si era già rivelato utile per proteggere il gruppo da misure restrittive varate durante l’amministrazione Trump.
L’accordo commerciale prevede un’imposizione tariffaria armonizzata intorno al 15%, una soglia considerata accettabile dagli analisti del settore, soprattutto in un comparto ad alta marginalità come quello del lusso. Una fascia di prezzo che, pur rappresentando un freno, risulta meno dannosa rispetto a ipotesi iniziali che spingevano verso il 20%.
Secondo il «Financial Times» Parigi starebbe inoltre spingendo per ottenere esenzioni specifiche per champagne, cognac e altri alcolici francesi, da sempre al centro delle tensioni commerciali transatlantiche. Per il momento, nessun dettaglio è stato reso ufficiale, ma l’urgenza di un compromesso appare evidente.
L’intervento di Bernard Arnault – imprenditore tra i più influenti al mondo, nonché uomo simbolo del capitalismo europeo – non è solo una presa di posizione in difesa del proprio gruppo. È anche un segnale politico, che rivela quanto il lusso sia oggi uno snodo strategico nelle relazioni economiche tra Europa e Stati Uniti. Il rischio di una guerra commerciale non riguarda più soltanto acciaio, automobili e semiconduttori: passa anche dai profumi, dalle borse e dai calici di champagne.
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