Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Antonio Pepe
Leggi i suoi articoliIn un interno di via Bagutta, a Milano, lasciamo all’entrata della galleria le zavorre per fermarci ad ascoltare la storia dell’elegante proprietario, Carlo Orsi (classe 1954). «Io sono laureato in architettura, avevo uno zio architetto e ho fatto apprendistato da lui. Però non so per quale motivo una mattina mi sono svegliato e ho pensato che avrei dovuto occuparmi di arte antica, perché ero un po’ insofferente di stare dietro una scrivania. Viaggiare, conoscere gente e avere a che fare col Bello, è quello che ho fatto lavorando con il mio papà per i primi due anni». Il padre, Alessandro Orsi, è stato un grande protagonista del mondo antiquariale meneghino, il Gentiluomo di Milano, cosiddetto, aveva fatto fortuna nella «cerchia dei Navigli». Ma i caratteri forti non portano a convivenze pacifiche. «Dopo due anni, la frizione era tale per cui io me ne sono andato, perché nonostante lui avesse costruito il suo successo, essendo un uomo colto, intelligente, di grandissimo gusto e di un senso della qualità che poi io credo di aver assorbito per colpo di fortuna, c’era quasi una forma di concorrenza nei suoi confronti verso di me, per cui ho impiegato dieci anni a capire cosa bisognasse fare del mestiere». Un salto generazionale che genera un buco nero, in trent’anni, l’Eldorado dei nonni.
Ai tempi del Gentiluomo: «Era un mestiere quotidiano, alla moda, si comprava e si vendeva in un battibaleno. Io di questo avevo preso poco e sono sempre stato proiettato a uscire dai muri cittadini e viaggiare anche all’estero, cosa che ho fatto e che in seguito mi ha dato i risultati». Prima non era necessario, «si comprava e si vendeva di tutto nel giro di una giornata. Ben ricordo che arrivavano i camion che mio padre prendeva e c’era la fila di gente tra antiquari, mercanti e collezionisti che venivano, compravano, e portavano via. Papà comprava ville intere, una volta era così, non era un quadro o una scultura, vendeva il novanta percento e teneva il dieci che gli piaceva. Ciò formava una collezione. Impensabile per me perché mi basavo sull’autofinanziamento».
Quello di Carlo Orsi è un capitolo scritto daccapo, di suo pugno. «Mio padre mi ha aiutato, ma mi ha aiutato poco. Il mio inizio commerciale è stato la piccola eredità di due oggetti che mia nonna mi ha dato. Uno me lo son venduto, una scatola di legno in radica con delle finiture in bronzo. Da lì ho iniziato a fare il mio commercio. Con degli amici andavamo a Londra a vedere le aste, tornavo frustrato perché non sapevo cosa comprare e cosa si vendeva. È stata davvero una gavetta durata dieci anni che, col senno di poi, è stata fantastica, come col senno di poi sono sempre grato a mio padre perché mi ha lasciato questo posto meraviglioso, ma il fatto di avere conflitti mi ha permesso di emanciparmi e di rendermi indipendente. A un certo punto sono andato a lavorare tre mesi a Londra, a fare il facchino da Christie’s: spostare i mobili dal deposito alle sale, fare la guardiania, quando c’erano le aste, stare lì a tenere un quadro. È stato divertente perché ho imparato tanto, anche la psicologia della gente. Il nostro è anche un lavoro da psicologo. Tu devi interpretare chi hai davanti, devi capire il momento. Londra è stata molto utile così come una piccola parentesi americana quando mio padre diceva “Dove vai? Così lontano…”. Lui è stato credo una sola volta a Londra, un paio di volte a Parigi e forse una sola a Vienna. Quando si è ritirato ho preso questo spazio, cercando di mantenere la qualità delle opere e selezionando molto di più».
Stiamo parlando di una selezione necessaria, darwiniana, per adattarsi a un ambiente sempre meno lussureggiante. «Ricordo, i mobili antichi li portavi giù dalle case li vendevi dopo un secondo. Cioè veramente, se vogliamo, il mondo in questo senso è davvero cambiato. Ciò non è solo negativo. Sì, il mercato si è ristretto, è diventato nicchia un po’ per un fatto culturale, ma chi compra oggi ha una conoscenza specifica maggiore. L’interlocutore è uno che conosce, il resto è fatto sulla qualità delle opere, sulla conservazione, sulla rarità. L’interazione con lo storico dell’arte va di pari passo, perché io posso essere mercante e vendere, come faccio, però ho anche il dovere di fare della ricerca. Negli ultimi anni la maggior parte di quello che ho prodotto è stato in associazione con gli studi storici. Questa è la cosa che mi diverte di più». Gli antiquari sono invece «ricercatori nel senso del detective. Cerchiamo le opere d’arte che magari sono nell’oblio ed escono grazie alla nostra sensazione».
Miglior acquirente, musei o collezionisti privati? «Le istituzioni negli ultimi anni sono state attive però a complemento di qualcosa che mancava». Qui il lavoro del detective, a Carlo Orsi mancherebbe solo la lente alla mano per interpretarlo sul grande schermo. Gli ultimi casi che ha risolto riguardano una cimasa di Giovanni da Milano venduta agli Uffizi, a completamento di un polittico, e parti di un altro polittico di Bartolomeo Vivarini alle Gallerie dell’Accademia a Venezia, nuove aggiunte vendute al museo veneziano anche grazie alle ricerche del suo collaboratore Ferdinando Corberi. «Adesso sto lavorando sul Bergognone che in teoria dovrebbe andare all’Accademia Carrara di Bergamo, idealmente, poi che ci vada è un altro paio di maniche, però un nesso c’è. I privati, ovviamente, sono più veloci, comprano le cose che desiderano quando saltano fuori. Non c’è un fifty-fifty tra Stato e privato. Il privato ha una rapidità che lo Stato non ha».
La serie di gialli risolti sarebbe piaciuta ad Arthur Conan Doyle. Come per la storia di un pannello intarsiato «con la precisione del miniaturista» ritrovato per caso a Buenos Aires in compagnia di un amico italo-argentino, rovistando tra quadri dell’Otto e Novecento nella villa di un polacco scappato durante il nazismo. «Quanto costa?» 10mila dollari. «Morale della favola, lo compero, prendo le foto e le inoltro a quello che è uno dei maggiori esperti», Alvar González-Palacios, lo anticipo io per entrare nel ruolo (Elementare, Watson!), e il caso si chiude con la vendita profittevole dell’opera dopo la ricostruzione filologica. Si trattava di un dono dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo al principe Poniatowski, realizzato da Maggiolini. In tempi più recenti il ritrovamento del dipinto di Pontormo che era stato riconosciuto da Roberto Longhi negli anni Cinquanta e poi lasciato nell’oblio. «Me lo sarei tenuto a casa veramente», confessa.
«Per me ogni ritrovamento è stato fonte di gioia e di interesse, non posso fare delle differenze tanto mi piace il mio lavoro. Certo è che ho preso anche degli inciampi». Uno segnato nella memoria riguarda due vedute di Venezia, «comprate senza batter ciglio perché il contesto non mi induceva alcun tipo di dubbio». Pagate 100 milioni di lire e rivendute totalmente in buona fede. Una chiamata imprevista ha capovolto l’operazione: «Come falsi? Vado a rivederli con degli occhi diversi e mi rendo conto che lo erano. Allora gli ho ridato i soldi, li ho mandati all’asta e li ho venduti per 5 milioni di lire. La responsabilità era mia, cioè gli errori si fanno, poi l’esperienza ti aiuta per farne sempre meno. Per fortuna sono stati molto limitati». In un lavoro così travolgente solo i migliori imparano dagli sbagli. «La lucidità è quella che uno dovrebbe sempre mantenere. È vero che questo mestiere è fatto di emozioni, ti portano comunque a uno scompiglio, non possono essere razionali. E per fortuna che non lo sono».
Altri articoli dell'autore
Pastellista del Settecento di ritratti «fatti col fumo», artista di strabiliante successo, conquistò l’Europa. Poi conobbe un periodo di indifferenza. Ora i suoi valori sono in forte crescita, anche se forse non abbastanza
Un excursus tra le aste di settore dell’ultimo anno rivela che il ritratto costituisce un mondo a sé stante in questo raffinato genere di collezionismo