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Gabriele Magro
Leggi i suoi articoli«Ho passato tante ore qui quando ero studente. Per questo mi ha fatto così effetto tornarci il 20 giugno 2017, quando ho preso servizio. La vita riserva cose imprevedibili», dice sorridendo Fabio Uliana. Il fatto che ricordi a memoria la data del suo primo giorno alla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, dove è coordinatore dell’Ufficio manoscritti, rari e collezioni speciali, racconta bene il suo legame con questo posto. Gli chiediamo di scegliere dal patrimonio vastissimo della Biblioteca (più di 16mila volumi antichi tra incunaboli, cinquecentine e manoscritti, più di 700mila volumi totali) alcuni libri di cui raccontarci le storie.
Sceglie le carte di Vivaldi: più del 90% del patrimonio autografo vivaldiano è conservato nella Biblioteca: «Senza questo corpus documentario, di Vivaldi sapremmo pochissimo», dice Uliana. Ci mostra poi un manoscritto miniato del IX secolo che tramanda un’opera di Rabano Mauro, vescovo di Magonza. «È un testo peculiare: sono carmina figurata, cioè versi che si incastrano per dare vita a delle vere e proprie immagini. Il manoscritto, però, l’ho scelto anche per un altro motivo: è un po’ bruciacchiato, perché ha subìto i danni dell’incendio che ha coinvolto la Biblioteca nel 1904. Così, oggi, il volume contiene due storie: da un lato abbiamo il manoscritto allestito alla metà del IX secolo, e dall’altro un pezzo di storia del restauro». Chiediamo a Uliana, un po’ provocatoriamente, se un patrimonio come questo andrebbe valorizzato con strategie museali o biblioteconomiche. «Dipende. Quel che è certo è che il libro non può diventare una reliquia. Molti dei manoscritti più preziosi dell’antica sede, cioè della biblioteca che prese fuoco, andarono distrutti proprio perché erano esposti come artefatti sotto vetrine da esposizione». Come a dire: i libri prendono fuoco dove non vengono letti. Sembra un caso ma non lo è.
Dei rischi della sacralizzazione del libro scrive con molta lucidità Chiara Faggiolani nel suo intervento sul primo numero di «la Rivista» (2023) dell’agenzia cheFare: «I libri corrono il rischio di essere esclusi dalla vivacità del dibattito culturale, quasi come oggetti sacrali, da museo. (...) Forse per questo è venuto spontaneo intraprendere una narrazione delle biblioteche che ne valorizzasse l’innovazione proprio a partire dalla distanza con il libro, con iniziative come l’uncinetto e lo yoga». Una strategia complessivamente perdente. Nonostante tutte le iniziative di comunità, stando ai dati Istat del 2022, solo un italiano su dieci aveva frequentato una biblioteca nell’anno solare. Questo è perché, in ogni caso, per gli italiani il libro è un cattivo testimonial: stando ai dati Eurostat siamo i lettori più deboli dell’Unione dopo ciprioti e rumeni. Eppure le biblioteche, che gli piaccia o no, il libro se lo portano nel nome: nessun’altra rete infrastrutturale può intestarsi la responsabilità di provare a invertire questa tendenza.
«Valorizzare i libri significa permetterne la fruizione, dice Uliana, fare sì che siano conosciuti e studiati per il testo che veicolano. Poi, certo, anche di libri come oggetti si può e si deve parlare, ma è una sfida diversa». Un buon punto di partenza, per chi volesse approfondire le ragioni del successo plurisecolare della tecnologia libro, è un articolo di Roberto Pizzato pubblicato nel 2018 sul «Tascabile». Si intitola «Libri come merce» e sostiene che, in sostanza, l’alfabetizzazione di massa sia stata la conseguenza di un’industria editoriale in espansione: «Se Aristotele si poteva trovare in un negozio, l’unico modo per usufruire di questa merce era l’alfabetizzazione».
Nel nostro Paese la partita dell’alfabetizzazione è ancora aperta e la stiamo perdendo: un adulto su tre sarebbe in condizione di analfabetismo funzionale secondo l’Oecd Survey of Adult Skills 2024. E di fronte a dati come questi, è difficile sostenere che delle biblioteche non abbiamo più bisogno. Eppure intervenire sulle biblioteche, e attraverso le biblioteche, è difficile. Del resto, già «biblioteca», in sé, è una parola difficile, perché è polisemica: indica sia una collezione di libri sia l’edificio che ospita quella collezione. È biblioteca il manoscritto del IX secolo ed è biblioteca la macchinetta del caffè all’entrata, ed è per questo che le questioni da affrontare sono così tante: gli orari di apertura, l’accessibilità per persone con disabilità, la digitalizzazione, la formazione, i cataloghi, i bagni senza fasciatoio e un migliaio di altre cose. Sono questioni da porci, e da porre alla politica, con la massima urgenza. Perché di biblioteche inclusive, accoglienti, aperte, c’è un bisogno urgente e politico. Racconta Uliana: «Una volta, scendendo le scale, ho visto due ragazze che si baciavano e si tenevano la mano. Vuol dire che la biblioteca per loro era un ambiente protetto, e forse non tutti gli ambienti sono così. Anzi, sappiamo che non tutti gli ambienti sono così». Come a dire: dove ci sono tanti libri chi si bacia è al sicuro. Sembra un caso ma non lo è.