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Creo, curo e forse guarisco l’arte

Sedi varie. «Ho conquistato la libertà; ho salvato l’indipendenza dell’arte»: così Gustave Courbet, che si era definito «l’uomo più orgoglioso e arrogante di Francia», spiegò la sua decisione di non partecipare all’Esposizione universale del 1855, organizzata dallo Stato, proponendo invece un suo «Padiglione del Realismo» proprio davanti alla mostra, lungo gli Champs-Élysées. Per 20 soldi si potevano vedere 40 dipinti di Courbet proposti secondo il gusto dell’autore, senza l’intervento dei curatori «pubblici». Ma l’esposizione fu un flop. I visitatori non arrivarono mai, i critici quasi non la notarono e i prezzi d’ingresso vennero dimezzati. Non si può nemmeno definire la prima mostra curata da un artista. Jacques-Louis David aveva già allestito una rassegna delle sue opere nel 1799. Eppure, con il senno di poi, la mostra di Courbet, fu fondamentale. Fu, come scrisse lo storico dell’arte Yves-Alain Bois, «il primo segnale di avanguardia», la prima ribellione al potere del curatore.
 
Cura omeopatica

Il tema dell’artista come curatore è stato discusso nell’ambito del programma di conferenze della fiera Art Basel Miami Beach. Del resto, le mostre curate da artisti sono ormai ovunque, dalle costose biennali (a novembre Christian Jankowski è stato nominato curatore della prossima Manifesta 11) alle mostre in galleria, passando per le rassegne istituzionali: il MoMA di New York ne ha proposte nove dal 1989, la più recente firmata da Trisha Donnelly a fine 2012. A febbraio alla Hayward Gallery di Londra, sette artisti tra cui Richard Wentworth e Hannah Starkey cureranno una sezione di una mostra dedicata alla storia inglese degli ultimi settant’anni. Artisti come Ellsworth Kelly e Glenn Ligon curano anche mostre delle loro opere, proprio come Courbet. Recentemente Kelly ha presentato «Monet Kelly» per il Clark Institute del Massachusetts (fino al 15 febbraio), che accosta il suo lavoro a dipinti del pittore francese. Ligon sta lavorando a «Encounters and Collisions», che accosta la sua produzionete a quella di colleghi come Chris Ofili e Robert Gober: allestita al Nottingham Contemporary, Inghilterra, la rassegna si inaugurerà il prossimo aprile. Il pittore Eric Fischl è invece il curatore di «Disturbing Innocence» alla Flag Art Foundation di New York fino al 31 gennaio, che espone opere di 50 artisti, da Giacometti a Lichtenstein, e ogni pezzo raffigura bambole o giocattoli. A Torino, infine, la mostra «Shit and Die», curata da Maurizio Cattelan, è stato l’evento collaterale di maggior richiamo della fiera Artissima. Mostre come queste di solito esaltano la sensibilità individuale di un artista piuttosto che una presunta «obiettività». «Stanno alle mostre museali come, in un giornale, un editoriale sta a un articolo informativo», spiega Ann Temkin, curatore in capo di pittura e scultura al MoMA. I curatori «ufficiali», inoltre, sono ancora costretti ad affrontare limiti istituzionali che gli artisti possono ignorare. «Ho visto mostre allestite da artisti che sembrano dotate di una carica liberatoria, non esistono obblighi nei confronti di determinate categorie che io porto inevitabilmente con me in qualità di storico dell’arte», dichiara Helen Molesworth, curatrice del MoCA di Los Angeles. Questo vale soprattutto per le mostre «politiche», spiega Jens Hoffmann, vice direttore del Jewish Museum di New York. «Io non posso esprimere la mia opinione politica in una mostra, ma gli artisti sì».
 
Imputato Szeemann

Ma se gli artisti possono essere curatori efficaci, non pare assurda nemmeno l’idea che i curatori possano essere potenziali artisti e che l’intervento curatoriale sia in sé un’opera d’arte. Tuttavia, alcuni artisti si sono apertamente opposti a curatele particolarmente creative. Nel 1972, ad esempio, Daniel Buren censurò Harald Szeemann per la sua gestione di Documenta 5. Secondo Buren, il grande curatore svizzero aveva confuso i ruoli di curatore e artista e Documenta era diventata un’unica grande opera d’arte. «Sempre più il soggetto di una mostra si sposta dalla presentazione di opere d’arte all’esposizione dell’allestimento come opera d’arte», scrisse l’artista. Nelle mani di  Szeemann, aggiunse Buren, l’arte diventa «un semplice espediente decorativo per la sopravvivenza di un museo». Una collega di Buren, Dara Birnbaum, è in linea con la posizione dell’artista francese e offre una valida spiegazione alla proliferazione di artisti-curatori: «Molti di noi cercano di curare le mostre per riconquistare parte del potere di contestualizzare la propria opera. Credo che per molti di noi il disegno curatoriale di rassegne importanti come Documenta sia diventata così forte da farli sentire relegati in seconda fila».

 



Pac Pobric, 08 gennaio 2015 | © Riproduzione riservata

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