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Jean-Pierre Cuzin. Foto Artcento

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Jean-Pierre Cuzin. Foto Artcento

Cuzin: «Un museo si basa sulla qualità delle opere, non sull’immagine che esse trasmettono»

Lo storico dell’arte francese, già direttore del Dipartimento di pittura del Louvre, ripercorre i momenti salienti della sua carriera. Tra i suoi primi incarichi: far la guardia alla Gioconda...

Carole Blumenfeld

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Storico dell’arte, specialista di Valentin de Boulogne, dei fratelli Le Nain, di Georges de La Tour, di Jean-Honoré Fragonard e di François-André Vincent, Jean-Pierre Cuzin (1944), dopo essere stato direttore del dipartimento di pittura del Louvre, e vicedirettore generale dell’Institut National d’Histoire de l’Art, collabora attualmente con il Cabinet Turquin.

Nel testo che le ha dedicato nel 2018, Michel Laclotte ricorda una circostanza che Pierre Rosenberg ha raccontato più volte: «Tutto è iniziato al mercato delle pulci, dove è stato notato, innanzitutto da Pierre Rosenberg, un altro frequentatore abituale, per la sua conoscenza e il suo talento nello scovare oggetti».
Verissimo! Provengo da una famiglia di istitutori, gli «ussari neri della Repubblica», e quando, a 16 anni, ho preso la maturità i miei genitori non immaginavano che avrei potuto fare altro se non insegnare arti visive. Dopo un anno di preparazione all’Ecole des Beaux-Arts di Mâcon, sono andato al Lycée Claude-Bernard di Parigi per prepararmi per i Capes (i Certificati di abilitazione pedagogica all’insegnamento di secondo grado nella scuola francese, Ndr).

Contemporaneamente mi sono laureato in Storia dell’arte alla Sorbona. Uno dei miei docenti, Antoine Schnapper, che all’epoca era assistente di André Chastel e a cui piacevo, aveva parlato di me a Pierre Rosenberg. Mi attiravano già le piccole cose e passavo il tempo nei mercatini delle pulci, dove si potevano pagare quasi niente i disegni degli artisti «Pompiers». Questo gusto per l’acquisto di piccole cose non mi ha più abbandonato. Rosenberg mi telefonò in seguito per invitarmi a fargli visita con le «mie scoperte». Andai in rue de Vaugirard con tre brutti disegni sotto il braccio. Lui li esaminò e mi segnalò subito a Michel Laclotte, che all’epoca era il «capo» dei dipinti e che mi ricevette nel suo ufficio al Louvre. Avevano un amico consigliere dell’Eliseo che riuscì a farmi distaccare dal Ministero dell’Istruzione al Dipartimento di pittura del museo, dove arrivai alla fine dei preparativi per la mostra «Il secolo di Rembrandt» [Petit Palais, 1970-1971].

Ha abbandonato presto le sue ambizioni artistiche.
I miei modesti tentativi direi! Da bambino disegnavo soggetti storici. Mi piacevano i costumi antichi, che copiavo dalle tavole del dizionario Larousse o da riproduzioni di quadri. Quando ero adolescente avrei voluto dipingere e pensavo che se fossi diventato insegnante di disegno sarei stato in grado di dipingere.
All’Ecole des Beaux-Arts di Mâcon ho studiato i rudimenti tecnici, poi al Lycée Claude-Bernard sono stato affascinato dal gusto dei miei insegnanti per gli artisti della loro generazione, Jean Bazaine, Maurice Estève, Alfred Manessier... Ad accomunarli tutti era un approccio cézanniano  che ho conservato nel mio apprezzamento della pittura antica e moderna. Continuo a guardare la pittura attraverso lo spazio e la luce di Paul Cézanne, e quindi attraverso Raffaello e Nicolas Poussin, poiché è possibile rifare tutta la storia delle forme attraverso il prisma di Cézanne. In quegli anni al Louvre ho fatto molti piccoli schizzi e acquerelli «d’après» i maestri. Alla fine sono diventato curatore di musei per caso, anche se, e lo ricordo con un certo divertimento, già a 9 o 10 anni m’immaginavo al Louvre.

Michel Laclotte non ha mai voluto incoraggiarla a specializzarsi nella pittura italiana?
No, ha ragione. Con il senno di poi, è vero che Duccio e Giotto mi affascinano, ma Michel Laclotte riteneva che Caravaggio e il Settecento francese fosse un campo più adatto a me. Dopo qualche mese al Louvre, il corrispondente di Laclotte si rese conto che il sistema del distacco non era più sostenibile e mi esortò a partecipare al concorso del museo. Lo superai e il mio anno come «pensionnaire» all’Accademia di Francia a Roma mi servì come stage. Michel Laclotte e Italo Faldi, il soprintendente alle Gallerie del Lazio, avevano lanciato l’idea di un grande progetto dedicato ai caravaggeschi francesi e c’era l’urgenza di lavorare su questo tema piuttosto complesso, al quale ci dedicammo Arnauld Brejon de Lavergnée, un altro pensionnaire, e io. Visto che Laclotte mi aveva concesso il permesso di rimanere a Villa Medici solo per un anno e non per due, c’era molto da fare in un anno, poiché la mostra «Valentin e i caravaggeschi francesi» era prevista per il 1973. Quell’anno a Villa Medici coincise anche con il mio incontro con Balthus, all’epoca direttore, un incontro che mi ha segnato profondamente.

Al suo ritorno a Parigi, entra nel dipartimento di pittura e si immerge nei preparativi per la mostra «Da David a Delacroix. La pittura francese dal 1774 al 1830», che avrebbe segnato un’altra parte della sua vita scientifica.
Uno dei miei primi incarichi fu, nientemeno, di tenere d’occhio la «Gioconda». Nel 1974 l’opera era stata prestata al Giappone e a Mosca: fortunatamente per  l’ultima volta, perché non si dirà mai abbastanza della fragilità dell’opera. A Tokyo avevo il compito di sorvegliarla ogni giorno. In cinquanta giorni, davanti al dipinto sono passati un milione e mezzo di visitatori, tantissimi! Quel flusso ininterrotto di persone significava che non c’era tempo per fermarsi, non si poteva proprio, soprattutto perché per far entrare il maggior numero di visitatori possibile era stato installato un nastro trasportatore! Contestualmente, mentre iniziavo un corso triennale all’Ecole du Louvre sui caravaggeschi francesi, ho potuto lavorare a fianco di Pierre Rosenberg e Jacques Foucart alla preparazione della mostra «Da David a Delacroix». All’epoca gli storici dell’arte non parlavano d’altro che del libro Transformations in Late Eighteenth Century Art, pubblicato da Robert Rosenblum nel 1967. Fu allora che, lavorando su François-André Vincent, cominciai a interessarmi al suo rapporto con Jean-Honoré Fragonard.

La pubblicazione dell’imponente monografia «Vincent. Entre Fragonard et David», edita da Arthena nel 2013, accompagnata da mostre a Tours (2013-14) e Montpellier (2014), è stata il frutto di quattro decenni di riflessione sul ruolo di questo artista. In sostanza, lei ha proposto un’alternativa a una storia dell’arte del periodo rivoluzionario dominata dalla figura di David.
E non sono l’unico. «Da David à Delacroix» ha spinto molti altri ricercatori ad esplorare quel periodo della storia dell’arte. François-André Vincent non è mai stato dimenticato del tutto, diciamo che era invisibile. La sua opera era troppo complessa per essere presa in considerazione da una storia dell’arte semplificatrice. Vincent sta a cavallo tra due secoli, due stili, due concezioni dell’arte e della società. Il suo lavoro non si attaglia alle divisioni e alle idee di rapida esecuzione e altrettanto rapida accettazione. È un artista che è stato confuso con i più grandi pittori del suo tempo, e non solo (anche con Velázquez, Géricault e Delacroix!), ed è questo l’aspetto interessante. Il pittore che ammiro di più e su cui ho lavorato (modestamente) è Raffaello. Ma l’uomo su cui ho lavorato e che amo di più è Vincent, la cui personalità multipla e contraddittoria mi sfugge.

Gli sguardi incrociati della storia dell’arte sono al centro dei suoi interessi scientifici fin dalla mostra «Raffaello e l’arte francese» al Grand Palais nel 1983-84. Poi c’è stata «Copiare-Creare. Da Turner a Picasso» nel 1993 o «Ingres e i moderni» nel 2009, ma non solo.
Tutti gli artisti hanno fatto copie e hanno lavorato «dʼaprès» o in opposizione a un artista, maestro o rivale. «Copiare-Creare» è stata una risposta al desiderio di Michel Laclotte di mettere in evidenza questo tema nel contesto del bicentenario del Musée du Louvre. Dimitri Salmon e io abbiamo scritto due libri intitolati uno Regards croisés, nel 2006, su Ingres e l’altro, nel 2007 su Fragonard, in cui abbiamo analizzato il modo in cui gli artisti consideravano i loro predecessori ed erano considerati dai loro successori. È una storia dell’arte «attraverso gli occhi», con una propria sensibilità e accessibile al maggior numero di persone possibile. Ho adottato un principio simile per la mostra «Fragonard, origini e influenze. Da Rembrandt al XXI secolo» a Barcellona nel 2006-07, dove ho mostrato i suoi legami con Honoré Daumier, e che si è conclusa con l’installazione «The Swing (after Fragonard)» di Yinka Shonibare [collezione della Tate Britain, Londra].

Nel 2003 lei si è dimesso dalla carica di curatore capo dei dipinti del Louvre ed è diventato vicedirettore dell’Institut national d’histoire de l’art (Inha). Tuttavia non ha mai smesso di difendere quella che Michel Laclotte definisce «la virtù che i musei devono osservare». Qual è questa virtù?
Ho lasciato il Louvre nel momento in cui si parlava d’inviare in Giappone «La Libertà che guida il popolo» di Eugène Delacroix, perché ritenevo che il museo non svolgesse più pienamente la sua missione repubblicana. C’era una vera e propria divergenza di opinioni tra me e il presidente del museo sul ruolo del direttore del Dipartimento di pittura e sul suo ruolo in termini di grandi orientamenti scientifici. E il risultato mi ha dato ragione. Non torniamo sul doloroso episodio della petizione contro il Louvre Abu Dhabi (nel 2007 oltre 1.600 storici dell’arte e intellettuali firmarono una lettera di protesta intitolata «I musei non sono in vendita», chiedendo di preservare l’integrità dei musei francesi e di evitare le derive dei prestiti a lungo termine, Ndr).

Resto convinto che un museo debba essere concepito intorno alle opere. La cosa fondamentale sono le opere stesse, la loro bellezza e il loro posto nella creazione artistica. A mio avviso, un museo si basa innanzitutto sulla qualità delle opere e non certo sull’immagine che esse trasmettono. Un museo che espone brutti quadri o copie perché il loro soggetto è interessante non è un vero museo. Un’operazione totalmente ideologica o una finzione che pretendesse di presentare una parte della storia attraverso sezioni che rappresentano la storia, la religione o i conflitti militari sarebbe un fallimento.

Che cos’è per lei il conservatore di un museo?
Una persona che mostra al pubblico e a tutti gli spettatori opere bellissime e spiega il contesto in cui sono state create, facendole amare mediante il confronto e l’accostamento. Non si tratta di confrontare un «Ritratto di Colbert» e un «Ritratto di Luigi XIV», ma di confrontare un’opera di Philippe de Champaigne e un’opera di Hyacinthe Rigaud.

Da quando ha lasciato l’Inha, lavora come consulente per il Cabinet Turquin. Non è un paradosso per un patito dei musei come lei?
Non ero più in servizio e, come Everett Fahy, che ha ricoperto un ruolo simile presso una grande casa d’aste internazionale dopo aver lasciato il Metropolitan Museum of Art, ho fatto questa scelta per il piacere di vedere decine di nuovi dipinti. Éric Turquin, che è stato mio allievo all’École du Louvre, aveva ventilato questa idea molto tempo fa. Me l’ha riproposta quando ho lasciato l’Inha. Vado in rue Sainte-Anne due o tre mattine al mese per aiutare a fare una cernita delle opere che arrivano a centinaia ogni settimana, ed è un momento molto stimolante. Vedere quello che c’è e quello che si fa lì mi dà la possibilità di apprezzare dal vivo l’attualità dei dipinti antichi e, soprattutto, mi permette di tenermi al passo con le ricerche attuali. È anche un momento estremamente piacevole, perché imparo molto dalle nuove generazioni.

La raccolta dei suoi scritti su «Figures de la réalité. Caravagesques français, Georges de La Tour, les frères Le Nain», edito congiuntamente da Inha e Hazan nel 2010, mostra quanto sia cambiato questo settore della storia dell’arte dopo la sua mostra sui caravaggeschi francesi.
Per quanto riguarda Caravaggio, sono finalmente apparsi pochi nuovi dipinti di Valentin. Ora sappiamo che Cecco del Caravaggio, a cui è stata recentemente dedicata una mostra a Bergamo, non era francese. Grazie a Gianni Papi, sappiamo anche che il Maestro del Giudizio di Salomone è lo stesso del giovane Ribera. Abbiamo sviluppato e ampliato enormemente i cataloghi, cioè il numero di opere, il che ci ha permesso di fare progressi sulla loro cronologia, ma i grandi interrogativi rimangono. I fratelli Le Nain mi hanno sconvolto e ho cercato di mettere un po’ di ordine nella distribuzione delle loro mani. Il loro lavoro mi piace sempre di più e lo capisco sempre meno. È «intorno» ai Le Nain che devono ancora essere fatte le scoperte più interessanti. Lo stesso vale per Georges de La Tour! [Ride]. I problemi si moltiplicano.

Alla fine, l’unico artista che le resiste è Georges de La Tour, al quale ha dedicato diverse mostre e una monografia pubblicata nel 2021?
L’opera di La Tour, pittore caduto nell’oblio, è riapparsa a pezzi e bocconi nel corso dell’ultimo secolo. Rimane molto incompleta, perché la sua ricostruzione è complessa. Quattro quinti della sua opera sono stati distrutti dall’incuria e dalla guerra, e conosciamo bene solo gli ultimi cinque o sette anni della sua carriera. Molti dipinti emersi dal nulla e stilisticamente diversi l’uno dall’altro ci hanno costretto a mettere in discussione ciò che pensavamo in precedenza, in particolare la cronologia. Basti pensare al «Denaro versato» dal Museo di Belle Arti di Leopoli, riapparso nel 1972, al quale diversi storici dell’arte non avevano dato credito (è stata poi scoperta la firma!) e che ha fatto vacillare alcune idee consolidate.

Per molto tempo sono stato l’unico francese a concordare con gli storici dell’arte anglosassoni, in particolare Anthony Blunt e Benedict Nicolson, che si opponevano all’idea di un viaggio di formazione in Italia. Un documento attesta che all’età di 23 anni La Tour si trovava in Lorena, ma è vero che prima di allora aveva tutto il tempo per viaggiare. Gli italiani e i francesi che hanno lavorato su La Tour, tra cui Jacques Thuillier e Pierre Rosenberg, ritengono che il viaggio al di là delle Alpi sia essenziale per comprendere la sua carriera. Di recente mi sono avvicinato alla loro opinione, come dimostro all’inizio di questa monografia. Attualmente stiamo vivendo un periodo piuttosto fertile, per così dire, per la riscoperta di nuovi dipinti di Georges de La Tour. È il caso di citare la recentissima riscoperta di «San Giacomo con un grande libro», copia antica di una composizione completamente nuova. Questo sottilissimo notturno è tanto più importante in quanto non conosciamo altri «San Giacomo» di La Tour, a parte una figura a mezzo busto nella serie nota come «Apostoli di Albi».

Che cosa vorrebbe scoprire domani?
Mi verrebbe da dire un ritratto di Georges de La Tour, perché non ne conosciamo, ma preferirei un dipinto per il Louvre: un Masaccio, un Duccio o un Grünewald.

Lei è un donatore anonimo del Louvre.
E tale resterò!
 

Jean-Pierre Cuzin. Foto Artcento

Carole Blumenfeld, 11 settembre 2023 | © Riproduzione riservata

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