Daniel C. Blight, David Campany
Leggi i suoi articoliDaniel C. Blight, artista oltre che docente e scrittore, occupa la cattedra di fotografia presso l’Università di Brighton, dopo aver svolto attività di ricerca come visiting scholar anche all’Università dello Utah e all’Università di Yale. Di prossima pubblicazione, Photography’s White Racial Frame (Bloomsbury, 2024) sarà il suo secondo libro dopo The Image of Whiteness (SPBH Editions/Art on the Underground, 2019). In questa lunga conversazione a ruota libera, Blight discute su presente e futuro della fotografia insieme a un’altra figura di spicco nel panorama internazionale, David Campany, curatore, scrittore, educatore, docente all’Università di Westminster e curator at Large per l’International Center of Photography di New York. Tra i suoi libri ricordiamo Così presente, così invisibile (Contrasto, 2018) e Sulle fotografie (Einaudi, 2020).
Daniel C. Blight: Nell’anno successivo al picco della pandemia, ho vissuto la mia prima crisi di salute mentale. Essendomi ritrovato quasi completamente incapace di scrivere, per la prima volta dopo vent’anni mi sono dedicato alla creazione di opere visive Sembra un cliché, ma l’arte mi ha salvato. Spero che sia l’inizio di un’epoca in cui gli artisti si confrontano con forme di vulnerabilità anziché adottare un atteggiamento di cinismo critico, che personalmente voglio evitare in futuro. David, lei si è sentito vulnerabile ultimamente?
David Campany: Sì, ho trovato la pandemia molto dolorosa. Sono entrato a far parte dell’Icp-International Center of Photography di New York proprio quando è arrivato il virus. Per oltre un anno non sono potuto tornare a casa a Londra per vedere amici e familiari. All’Icp ho deciso di organizzare una collettiva su ciò che stava accadendo nel 2020 in tutto il mondo, adottando un approccio collaborativo che prevedeva un’ampia partecipazione di massa. La mostra mi ha messo in contatto con molte persone. Sapevo che per molti la fotografia in quel periodo era un modo per elaborare mentalmente le cose e quella mostra è stata il mio modo di reagire. Inoltre, ho sentito il bisogno di continuare a scrivere. Ho sempre realizzato immagini, ma ora ho quasi smesso. Non so perché. Sembra che abbiamo avuto modi opposti di affrontare gli ultimi due anni, ma abbiamo continuato a fare fotografia, in qualche modo. Credo che questo dica qualcosa di importante sul medium fotografico.
[D.C.B.] In effetti è così. Dopo «l’arte mi ha salvato» credo che un altro luogo comune ben collaudato sia «oggi si producono più fotografie che mai», eppure mi ritrovo a vedere questa proliferazione come un registro del dolore piuttosto che una sorta di meravigliosa produttività delle reti e connessioni personali. Forse la fotografia è una proiezione visiva delle crisi psicosociali? Voglio dire, certo, la fotografia ci sostiene in qualche modo, ma potrebbe anche essere la nostra fine? Non necessariamente di noi stessi (anche se probabilmente lo sarà!), ma più nel senso che la fotografia è una proiezione visiva della fine del mondo così come lo conosciamo? La fotografia sembra indicare punti di arrivo e calcolare possibili futuri?
[D.C.] Non credo che il problema sia la quantità di fotografie. L’eccesso è presente in ogni immagine, il cui significato va sempre al di là dell’intenzione e della comprensione consapevole. Questo è più inquietante della quantità. Sì, la fotografia potrebbe essere una proiezione di crisi psicosociali, ma cosa non lo è? Il cibo? I vestiti? L’architettura? La letteratura? La musica? Il lavoro? Il tempo libero? Le relazioni umane? La fotografia è ed è sempre stata fonte di sentimenti profondamente contrastanti. È questo che mi interessa, ma non mi salverà, né sarà la mia rovina. Sarà la fine del mondo come lo conosciamo? Beh, sappiamo che il mondo attuale non è un posto molto bello per la maggior parte delle persone. Quindi la fine di questa versione del mondo è benvenuta. Forse la domanda da porsi è: quali tipi di fotografia possono aiutarci a capire i problemi e a indicare un futuro migliore? Mi piace ancora la vecchia definizione di arte avanguardista, secondo cui essa serve a mettere in evidenza ciò che non va nel mondo e a mostrare la bellezza dove pensavamo non ci fosse. Certo, la «bellezza» viene criticata in tempi di crisi, ma non dovrebbe esserlo. È troppo importante.
[D.C.B.] La bellezza è un argomento affascinante e naturalmente profondamente soggettivo. Si interroga mai sulle motivazioni personali che la spingono a trovare belle determinate fotografie?
[D.C.] Sì, metto in discussione i motivi per cui trovo belle le cose. Questo interrogarsi profondamente riflessivo è la parte migliore dell’esperienza della bellezza ed è una sorta di vulnerabilità, anche se purtroppo se ne parla raramente.
[D.C.B.] Personalmente, mi ritrovo a desiderare, attraverso l’atto di fotografare, di restituire la bellezza a oggetti che in precedenza sono stati impregnati di un simbolismo «sporco». L’anno scorso ho realizzato una fotografia di un bicchiere di cristallo contenente del latte. Ho sempre trovato i bicchieri di latte particolarmente belli, fino a quando non mi sono imbattuto nel significato del latte in relazione alla supremazia bianca. In questo contesto mentale, è un simbolo di purezza bianca. Online i tipi dell’«alt-right» (l’«alternative-right», la nuova estrema destra statunitense, molto attiva su internet, Ndr) lo bevono per «esaltare» la loro bianchezza. Ho pensato che fotografando il latte avrei potuto recuperarne il significato attraverso la bellezza definita come trasformazione. Trovo che l’ingenuità di questa proposta sia significativa perché mi permette di riflettere sulla mia, di bianchezza. In un certo senso questa immagine è un autoritratto, ma potrebbe anche essere un ritratto di lei, David, o di qualsiasi altra persona bianca.
[D.C.] I significati possono sempre essere rigenerati in linea di principio, ma non sempre nella pratica. I bicchieri di latte non simboleggiavano la supremazia bianca finché i suprematisti bianchi non hanno deciso di diffondere immagini di loro stessi mentre sorseggiavano del latte. E come ha detto, per lei non era questo il significato di un bicchiere di latte finché non si è imbattuto in questa nuova interpretazione. È la ripetizione a produrre l’effetto. Sono d’accordo con lei sugli aspetti trasformativi o di redenzione della fotografia, che trasforma i suoi soggetti in segni enigmatici di loro stessi. Ma le immagini non portano significati allo stesso modo in cui i camion portano carbone. Esse suscitano in noi delle risposte. I momenti in cui sentiamo che qualcosa viene «ri-simbolizzato» possono essere molto potenti.
[D.C.B.] Pensa che stiamo assistendo a una crisi della mascolinità? Che cosa ha da dire la fotografia al riguardo ?
[D.C.] È evidente che c’è una profonda crisi della mascolinità, e mentre la sinistra ne ride compiaciuta, la destra interviene con ogni sorta di narrazione seducente, ma tossica, per far sentire agli uomini in crisi che la loro rabbia e il loro risentimento sono giustificati. È un problema molto reale che né la destra né la sinistra vogliono ancora affrontare in modo adeguato.
In secondo luogo, non è necessario che un artista abbia un punto di vista o un atteggiamento chiaro. Anzi, forse è meglio che non ce l’abbia, altrimenti la sua arte rischia di ridursi a meri «messaggi» e a un’interpretazione delle buone o delle cattive intenzioni. Purtroppo è stato un errore di valutazione da parte della sinistra optare per messaggi che cercano di produrre un effetto a breve termine. In parte credo che ciò sia avvenuto a causa di una pressione fortissima esercitata sull’arte per compensare le disfunzioni di quasi tutte le altre istituzioni pubbliche, dai servizi sociali e gli alloggi, all’istruzione e alla salute mentale. L’arte è passata dall’essere «per chiunque», all’obbligo di essere «per tutti» e di risolvere i problemi della società, cosa che ovviamente non può fare.
Se a questo populismo fuori luogo si aggiunge il fatto che la deregolamentazione reaganiana/thatcheriana dei mercati finanziari ha fatto sì che l’arte diventasse un giocattolo di un’élite di super ricchi ultraconservatori, si può vedere chiaramente la disfunzione. Il divario tra la casa d’aste di lusso e la classe di arteterapeuti finanziata dalle autorità locali è il divario tra ricchi e poveri. È desolante. Ma c’è anche la questione del rapporto della sinistra con l’ambiguità, che in tempi di crisi sociale e politica può diventare molto ansiosa, come se l’ambiguità non fosse uno spazio generativo ma un’indulgenza borghese. C’è una lunga storia di questo fenomeno, una storia che risale almeno agli anni Venti. Qualcuno dovrebbe scriverne.
[D.C.B.] Riguardo alla crisi della mascolinità penso che la sinistra di recente abbia fatto un lavoro molto interessante. Mi viene in mente il libro The Right to Sex (Farrar Straus & Giroux, 2021), in cui Amia Srinivasan scrive della cospirazione isterica contro gli uomini promulgata dalla destra e dai media liberali, tra cui la cultura dell’annullamento, il capitalismo e gli incel (un incel, contrazione di «involuntary celibate», ovvero celibe involontario, è un membro di una subcultura online costituita da individui incapaci di formare rapporti sentimentali e/o sessuali, pieni di risentimento e odio verso donne e persone che ci riescono, Ndr). Quello che però mi interessa sono gli uomini nel mondo della fotografia. In questo contesto sono stato testimone di ogni sorta di misoginia, e la maggior parte delle volte è francamente disgustosa. Le chiacchiere a porte chiuse di uomini conservatori di una certa età che vedono il loro potere diminuire con l’arrivo di una generazione di donne più giovani sono allarmanti. Ho visto come si sentono a proprio agio nel pronunciare cliché sessisti e patriarcali. Lo sanno tutti, ma nessuno è disposto a parlarne. Mi considero parte del problema, con la mia misoginia e il mio eterosessismo interiorizzati, ma ora non voglio parlare di me.
Che consiglio ha per la vecchia guardia? Se sei un fotografo maschio bianco di 60 anni e senti di non aver avuto il riconoscimento che meritavi, James Hyman o Martin Parr possono davvero cambiarti la vita offrendoti una mostra personale al Centre for British Photography di Londra o alla Parr’s Foundation di Bristol? Come possiamo convincere queste persone, organizzate in una sorta di cricca misogina, a rinunciare e a spostarsi? Questi fotografi, sostenuti in qualche misura da una ricca élite di uomini bianchi, hanno certamente un punto di vista chiaro riguardo alla loro politica, o se non altro alle immagini che realizzano. Questo non ci riporta forse alla questione della vulnerabilità?
[D.C.] Non mi sono mai trovato a porte chiuse con uomini conservatori, ma le credo sulla parola. Nell’ambito delle arti le cose si stanno muovendo molto più rapidamente in una direzione positiva per riequilibrare quei valori radicati così in profondità, il che è sorprendente da vedere, anche se la strada da percorrere è ancora lunga. Di certo è più veloce che in molti altri settori della società. Non mi interessa dare consigli ai fotografi più anziani, ma insegno a quelli più giovani. Abbiamo grandi discussioni al riguardo. Tutti gli studenti si sentono vulnerabili e per molti motivi diversi, dai mali del patriarcato al debito studentesco, dalla difficoltà di guadagnarsi da vivere come fotografo alle crisi geopolitiche e climatiche.
Uno dei motivi per cui mi sono avvicinato alla fotografia è che essa fa e non fa parte del sistema dell’arte. Ho sempre avuto una visione laterale dell’arte e sono sempre più interessato a un gruppo di fotografe, come Germaine Krull, Laure Albin-Guillot, Marianne Breslauer e molte altre, che lavoravano negli anni Venti e Trenta muovendosi liberamente tra il lavoro commerciale e le avanguardie. Sono state trascurate dalla storia in parte perché erano donne e in parte perché erano così versatili da sfidare la stretta richiesta canonica di uno stile definibile o di un soggetto fisso. Un po’ di tempo fa stavo presentando il lavoro straordinariamente vario di Krull ai miei studenti universitari, la maggior parte dei quali sono donne, e l’eccitazione era davvero palpabile. «Wow, forse non è necessario incasellarsi, lavorare in un solo contesto, in un solo modo, presentarsi in una maniera definita o accettare solo le condizioni ristrette che vengono offerte, anche se da alcuni punti di vista queste condizioni sembrano essere progressiste!». Non ci sono soluzioni rapide o risposte semplici, ma come educatori è importante cercare questi fari, dal passato e dal presente, che possano aiutare i giovani studenti a riflettere su come plasmare il mondo e su come trovare un percorso all’interno di quel mondo. Si tratta di tentativi ed errori, di suggerire e ascoltare.
Come curatore sto pensando a come affrontare questi temi. Di recente ho curato la mostra «Family Matters» di Gillian Laub e ho cocurato, con Sara Ickow, «Santa Barbara» di Diana Markosian. Per me il significato di questi progetti è il modo in cui raccontano storie molto diverse di donne che sono anche storie di uomini, madri, figlie, sorelle, storie di classe, religione, etnia e politica, in uno spazio indefinito tra giornalismo e arte. È la stratificazione di questi elementi a essere importante e complessa. In altre mostre, come «A Trillion Sunsets: a Century of Image Overload», il tema dichiarato (artisti che rispondono alla pletora di immagini nel mondo) è stato in parte un cavallo di Troia per introdurre ogni sorta di altri temi: di genere, razza, classe e politica.
Così le recenti immagini di nature morte di Nakeya Brown, che esplorano la rappresentazione della bellezza femminile nera, sono state esposte accanto a una delle pubblicità di cosmetici per donne bianche di cui Richard Prince si è appropriato quarant’anni fa. Il film di Jess T. Dugan, «Letter to My Father», è una documentazione davvero potente delle relazioni familiari di genere, raccontate attraverso istantanee di famiglia in cui il divario tra le aspettative paterne e la realtà diventa doloroso, ma catartico. Justine Kurland taglia e incolla fotolibri realizzati da autori che rispettano il canone maschile bianco: si trovano frammenti di fotografie di Brassäi che ricorrono in una presentazione adiacente di giustapposizioni di immagini tratte dalla rivista «Lilliput» degli anni Quaranta. Nell’album di collage di Hannah Höch, risalente agli anni Trenta, possiamo vedere gli stereotipi di genere che prendono forma all’interno dei mass media e che sono presenti ancora oggi. C’è qualcosa di eccitante, e forse anche di sovversivo, rispetto alle aspettative del pubblico nell’affrontare le questioni in questo modo circolare, anziché, per esempio, presentare uno spettacolo intitolato «Distruggere gli stereotipi di genere».
In un’altra mostra, «Actual Size: Photography at Life Scale», ho voluto includere un grande lavoro di Ace Lehner, che è davvero all’avanguardia nella riflessione sulla ritrattistica non binaria. Ace ha realizzato un’opera, «K.i.s.s.i.n.g», stampata a grandezza naturale che mostra una coppia, per metà fuori dall’inquadratura, abbracciata a un albero. Non abbiamo idea del loro sesso o della loro sessualità. Quando ho chiesto ad Ace se voleva esporre il pezzo accanto a un’opera di Jeff Wall, intitolata «Approach», ha aderito con entusiasmo perché era così diverso dal partecipare a mostre collettive intitolate «New Directions in non-binary portraiture» (Nuove direzioni nella ritrattistica non binaria, Ndr). Altre opere incredibili di Tanya Marcuse, Aspen Mays, Paola Pivi e Laura Letinsky presenti in «Actual Size» non affrontavano il tema del genere, almeno non in modo diretto.
Come curatore mi interessa sempre il modo in cui le opere vengono inquadrate tematicamente per il pubblico. Bisogna stare attenti a non limitare, ma a lasciare che le cose respirino e risuonino su quanti più livelli possibili. Certo, potreste chiedervi se tutto questo non sia dovuto al fatto che io, in quanto curatore bianco, maschio, più o meno eterosessuale, non mi sento a mio agio nel curare mostre che riguardano esplicitamente piuttosto che implicitamente il genere, la razza o la sessualità. Non ho sentito questa critica nelle recensioni, né dal pubblico, né dagli artisti. Ma non vedo molti altri curatori interessati a esplorare ciò che potrebbe emergere lavorando in questo modo (solo alcuni, e curiosamente si tratta di un gruppo piuttosto eterogeneo). Vorrei continuare a insistere per vedere dove si può arrivare.
[D.C.B.] Lei ha citato il lavoro di Kurland, che trovo molto interessante. Ritiene che il suo modo di operare, ovvero l’accostamento di immagini effimere e di bassa qualità, abbia ancora il potere che aveva negli anni passati? Suppongo che abbia un valore duraturo, come succede nella musica. Trovo che il lavoro di cut-up sia catartico in un modo diverso. Quando studiavo Sound art ero ossessionato da Brion Gysin, che per un certo periodo è stato associato ai surrealisti di Parigi, e ha realizzato opere in vari media. È interessante che non si parli di più del lavoro di Gysin sulle immagini-testo, perché a volte non è chiaro se sia stato lui stesso a realizzare opere che possono essere state attribuite a lui, come ad esempio le immagini presenti in «The Third Mind» (1977), una pubblicazione realizzata con Burroughs che non ho avuto modo di vedere se non in frammenti su internet, una sorta di visione e di spettatorialità monca. Adoro passare notti intere a cliccare su UbuWeb, dove è ancora archiviata la registrazione di Gysin che legge «I’ve Come to Free the Words». Immagino che in qualche modo questo ci riporti al recupero dei significati e alle questioni di soggettività e vulnerabilità.
[D.C.] Mi chiede se montaggio e il collage hanno perso il loro potere culturale… Non vorrei sovrastimare il potere che hanno avuto, ma allo stesso tempo non credo che l’abbiano perso. Forse lo «shock» non è più la cosa migliore a cui mirare (anche se non credo che avrebbe mai dovuto esserlo), perché c’è così tanta energia potenziale nella dialettica del montaggio e del collage. Gli esempi migliori non cercano di scioccare ma di provocare, suggerire, offrire controletture. Ho l’impressione che il montaggio e il collage siano vivi e incredibilmente ricchi nel lavoro di molti artisti contemporanei. Mi vengono in mente Arthur Jafa, John Akomfrah, John Stezaker, Anastasia Samoylova e Lorna Simpson. Tutti diversissimi tra loro, ma tutti interessati al recupero dei significati e quindi alla loro non fissità.
Penso che la non fissità sia al tempo stesso fonte di ansia e di potenziale creativo. È bene essere in sintonia con quei momenti in cui i significati si spostano davanti ai nostri occhi o abbiamo l’opportunità di spostarli noi stessi. Ora che ci penso, mi rendo conto che se dovessi fare un resoconto del mio impegno intellettuale e creativo nel corso degli anni con la cultura dell’immagine, potrei tracciarlo come un insieme di momenti in cui improvvisamente ho sentito che i significati cambiavano, diventavano disponibili, o in qualche modo erano in gioco. Questi momenti sono imprevedibili, pieni di quello che Barthes chiamava «jouissance»: un piacere inquietante e sconvolgente, vulnerabile ma anche eccitante.