Anna Somers Cocks, NK.L.
Leggi i suoi articoliIl Mao, Museo d’Arte Orientale, costituisce uno degli abbinamenti artistici più insoliti del mondo museale. Le opere vivono in una sinergia sorprendentemente gradevole con le sale storiche: il Buddha birmano del XVIII secolo davanti a un affresco neoclassico di una divinità svolazzante, e un cavallo Han giallo brillante del II-III secolo d.C. in una nicchia con volute barocche. Con i suoi 3mila metri quadrati di gallerie in un palazzo settecentesco nell’antico Quadrilatero, è nato, già con le sue collezioni, appena 15 anni fa.
Dallo scorso febbraio il museo ha un nuovo direttore, Davide Quadrio (Busto Arsizio, Va, 1970), che parla correntemente il mandarino ed è un sinologo che ha vissuto quasi 20 anni a Shanghai, dov’è stato un influente operatore artistico negli anni in cui l’arte contemporanea cinese si stava affermando e prima delle restrizioni attualmente imposte. Ha fondato e diretto dal 1998 al 2010 il BizArt Art Center, il primo laboratorio artistico-creativo non profit di Shanghai e nel 2007 ha costituito Arthub Asia, una società di produzione e curatela attiva in Asia e nel mondo. Ha curato mostre a Toronto, Shanghai, Venezia e Guangzhou e oggi insegna all’Università Iuav di Venezia.
Grazie a questa formazione, è profondamente consapevole di come l’Oriente fraintenda l’Occidente e viceversa, nonché di questioni scottanti come la decostruzione del colonialismo, che imprimono un preciso taglio curatoriale alla sua direzione. Quadrio è un uomo energico e impaziente, dal primo giorno ha voluto che una visita al suo museo fosse un’avventura estetica e intellettualmente impegnativa. Ritiene che un museo debba rendere esplicito il suo messaggio, essere animato da esperienze sensoriali e dalla creatività di artisti contemporanei in grado di interagire con la collezione, ma è anche ben consapevole della cautela con cui bisogna affrontare le attuali tensioni tra Cina e Occidente.
Che cosa dicono oggi le parole «arte orientale» a un pubblico italiano?
La prima domanda è: «Orientale rispetto a che cosa, geograficamente?». Perché ad esempio in passato l’Oriente comprendeva anche il Marocco, che in realtà è a ovest rispetto a dove siamo noi. E poi c’è la stratificazione, «Rispetto a che cosa è l’Orientalismo europeo?». È poi c’è un altro strato ancora, che parla di «orientale» anche da un punto di vista politico e sociopolitico. In Italia e in Europa in generale, quando tu parli di un museo d’arte orientale la difficoltà è che entri immediatamente in un’idea orientalista, un’idea anche imperialista o postimperialista. Ora la domanda importante è che cosa ci vogliono dire oggi queste collezioni all’interno di strutture sociologiche, politiche e culturali che non sono solo legate a un passato storico, ma al presente e che quindi parlano di problematiche legate a un globalismo che comprende Torino, l’Italia, l’Europa e l’intera Asia.
Perché Torino ha un museo di arte orientale?
È stata un’operazione costruita a livello comunale principalmente in risposta al desiderio di una persona che ha voluto fortemente realizzare questo museo, cioè il professor Franco Ricca. Il museo ha soltanto 15 anni, quindi è un’anomalia: non è un museo d’arte orientale come il Musée Guimet a Parigi o come altri musei di Paesi europei creati con opere dalle loro colonie. L’arte asiatica è entrata a Torino attraverso diverse collezioni, come quelle della Fondazione Agnelli e della Regione, e anche grazie ai doni diplomatici alla casa reale.
Il tema della provenienza è diventato centrale e urgente, mentre molte didascalie del museo non dicono dove sono stati trovati gli oggetti. Intende divulgare queste informazioni?
È proprio una delle cose che intendo fare. Non ci sono dati da nascondere perché quasi tutti i pezzi provengono da un mercato degli anni ’50, ’60 e ’70, della fine del periodo imperialista, per cui non ci sono delle grandi complessità. Altri musei in Europa, ovviamente hanno molte difficoltà rispetto alle provenienze. Qui è interessante sapere come l’oggetto è arrivato in Europa e come è stato poi predisposto al mercato. Ci sono, per esempio, delle statue con dei colori che in Cina non vedresti mai.
Noi abbiamo imposto i nostri criteri a mondi che non sono nostri. Come si comunicano queste differenze?
Molte delle opere esposte nel Mao sono oggetti sacri. Con la mostra «Il Grande Vuoto. Dal suono all’immagine» (la prima curata dal neodirettore Quadrio al Mao e conclusa il 22 settembre, Ndr), tu entravi e c’erano sei stanze vuote, piene soltanto di suono, e la prima e unica immagine vera che vedevi era una thangka tibetana del 1400. Di quest’oggetto storico della collezione ti rimaneva come un’immagine che non era quella di un’opera d’arte ma un’espressione evoluta di pratiche religiose. Diversamente dai musei occidentali, nelle opere del nostro museo a risaltare non è l’artista, ma il senso profondo della simbologia di quell’oggetto. Non esistono opere religiose buddhiste firmate da un artista.
Ci sono molti giovani italiani interessati al Buddhismo?
Sì. Le varie scuole di Buddhismo sono una filosofia, una pratica, una religione a seconda di dove ognuno si pone, che da fine ’800 ha preso molto piede in Europa, soprattutto in ambiente anglosassone, ma non solo. Quello che è interessante in un museo, però, è riportare anche il senso dei significati, per cui l’attuale mostra «Buddha10» non è cronologica ma tematica, e inizia con alcune domande: «Che cosa vuol dire questo?», «Perché c’è quest’altro?», «Come lo leggi?», «Come viene fatto il restauro?», «Che cosa è vero e che cosa è falso?», «Qual è il valore intrinseco di un’opera?», «Come un’opera è storicizzata?», «Qual è il percorso?». Abbiamo commissionato anche dei lavori sonori e opere d’arte contemporanea. Un video conclude la mostra con un’espansione dove entrano tutti: Cristo, Thor, le rappresentazioni tribali, la scienza quantica.
Essendo il Mao un punto di riferimento per l’arte orientale in Italia, non è paradossale che tutto il suo personale sia italiano?
È una cosa su cui sto lavorando molto, anche e soprattutto inserendo artisti che portino un pensiero e un approccio che non siano soltanto occidentale e italiano.
Come intende integrare l’arte contemporanea nel museo?
Mi piace lavorare con artisti viventi che siano in grado di approcciarsi al museo con curiosità. Per esempio, Marzia Migliora è l’artista torinese il cui lavoro è molto legato a migrazioni di cibo, di risorse, al pensiero globale, su come noi che siamo qui veniamo impattati da culture molto distanti. La cosa che è stato molto bello verificare è l’emozione nella relazione tra l’artista, il conservatore, il curatore e la didattica. Ricordiamoci che il museo non è solo il pubblico: il museo è anche fatto delle persone che ci lavorano.
Come pensa di coinvolgere le comunità locali, per esempio i cinesi, per cui le collezioni sarebbero culturalmente rilevanti?
Questo lo stiamo già facendo attraverso alcuni contatti. A Milano e a Torino molti cinesi sono arrivati all’inizio del ’900 partendo da Parigi e provenendo da contesti geografici e sociali particolari. Negli ultimi 15 anni sono invece venuti tanti studenti cinesi. La maggior parte poi ritorna in Cina, però c’è la presenza anche di un certo tipo di cinese intellettuale in Italia molto interessante. Io preferisco sempre lavorare su pochi individui, piuttosto che chiamare le comunità tanto per chiamarle. Se non hai le entrature corrette, che cosa dici loro? Stiamo collaborando con un’associazione di inserimento soprattutto di studenti cinesi in strutture di accoglienza educativa qua a Torino. Per esempio, nella mostra «Buddha10», loro si occupano di una interpretazione e attivazione dell’oggetto da un punto di vista anche religioso e rituale. La componente islamica, invece, deve essere molto più coinvolta, e sto quindi cercando di capire come far intervenire le comunità del nostro quartiere, a partire da maghrebini e bangladeshi.
Il museo collabora anche con l’Università di Torino. In che modo?
È un progetto che stiamo lanciando adesso con una ventina di lezioni in tutto l’anno. Sono lezioni in giro per il museo, che fanno intervenire docenze non soltanto accademiche, ma anche di cultura materiale, quindi musicisti, artisti, scienziati, conservatori, intellettuali, scrittori e filosofi.
Ho visto che la mostra di fotografie di Andrea Cavazzuti, scattate in Cina nel 1981-84, è stata realizzata in collaborazione con l’Istituto Confucio. Da molte parti si sta prendendo distanza dagli Istituti Confucio, statali, a causa della questione del genocidio degli uiguri. Che cosa ne pensa?
È una cosa molto rischiosa quando prendi posizioni che sono giuste da un punto di vista politico, ma che sono molto più complesse da un punto di vista sociale e culturale. La questione degli Istituti Confucio è davvero complessa. A Torino è un po’ più semplice perché amministrativamente non è interna all’Università. Mi sembrava molto giusto dare un segno attraverso l’Università che questa mostra è concentrata sugli anni ’80 in Cina, quattro anni prima che cominciasse l’esplosione economica globale. Oggi molte cose sono cambiate e il Governo cinese spinge la contemporaneità e guarda con disprezzo un passato più povero e contadino, lontanissimo dall’impressione di glamour che oggi la Cina ama dare di sé. Dunque averlo fatto con l’Istituto Confucio secondo me è bello, perché è stato anche un esercizio in qualche modo di coraggio da parte loro.
Come vuole cambiare l’esperienza fisica del museo per il pubblico?
Non farò mostre con cartongesso ovunque; tutto sarà ridotto al minimo. Non voglio avere miliardi di prestampati che poi si buttano via. Vorrei anche rifare i giardini nella corte interna e renderli un luogo veramente sociale. Stiamo parlando con il biologo Stefano Mancuso per renderlo un progetto pilota particolarmente innovativo anche da un punto di vista ecologico.
Vuole far crescere la collezione?
Accetterei delle nuove opere, di sicuro. Mi piacerebbe tantissimo avere un budget per le acquisizioni, cosa che non ho in questo momento. Ci manca la Corea, il mondo centrasiatico e la sezione arabo-islamica dev’essere rinforzata.
Qual è la situazione del collezionismo orientale in Italia?
Ci sono collezioni private veramente incredibili in Italia. Una di queste, principalmente di arte medio orientale e centr’asiatica, mi interessa molto: è quella di Alessandro Bruschettini e stiamo lavorando con la fondazione a lui intitolata per una serie di collaborazioni importanti per il 2023. Seguendo l’idea per cui il Mao presenterà un grande tema ogni anno per i prossimi quattro anni, il 2023 vedrà un focus sul mondo dell’Asia Centrale. Quest’anno invece mi sono concentrato sul Buddhismo cinese e sulla circuitazione di opere buddhiste in Occidente. L’anno prossimo sarà il contrario: si partirà dalla Cina di epoca Tang per viaggiare verso il Mediterraneo attraverso una collaborazione con quella straordinaria collezione di arte islamica che è appunto la Bruschettini. Sempre nel 2023 affiancheremo progetti di espansione che coinvolgeranno artisti contemporanei e interventi pop musicali e performativi. Il 2024 invece guarderà più a Giappone e Corea. Questo a grandi linee.