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Gian Marco Montesano
Leggi i suoi articoliI curatori non curano e gli artisti vogliono denaro e potere. La precedente generazione voleva soprattutto potere; oggi resta il denaro e per averlo sono sempre più asserviti ai potenti e alla finanza
Per me l’arte è una grande passeggiata eroica: per fortuna ho le scarpe buone e mi sento di farla, ma c’è tanta gente che non ha le scarpe buone»: così parlava il gallerista Emilio Mazzoli nel 1983, in un’intervista pubblicata nel numero di settembre di «Il Giornale dell’Arte». Si era nel boom della Transavanguardia, il movimento che, attraverso il sodalizio Achille Bonito Oliva-Emilio Mazzoli dopo tanti anni riusciva a esportare arte italiana. Prima c’era l’Arte povera, «un’esperienza importante ma non adatta a una città di provincia e all’Italia in generale. (...) Vennero fuori altri movimenti, sempre più raffinati, sempre più difficili. Ti accorgevi che andavi a proporre solo idee, parole e cose invendibili. Verso il 1977 cominciai a pensare che l’arte d’avanguardia aveva detto tutto. Avevo bisogno di nuove strade».
Iniziò così, a Modena, l’avventura con Chia, che gli presentò Cucchi. All’epoca Mazzoli, maestro elementare di solida formazione cattolica, aveva già aperto una galleria, «Futura», nel 1966. Ma è con i protagonisti del ritorno alla pittura che Emilio Mazzoli, alla fine degli anni Settanta, prende il volo, via via estendendo l’attività ad artisti internazionali: fu tra i primi, ad esempio, a cogliere il talento di Jean-Michel Basquiat. Sempre, però, con un occhio di riguardo all’arte italiana: Mario Schifano («un artista bravo come De Pisis») e Gino De Dominicis gli devono molto. Mazzoli, a 74 anni, non ha perso la verve e l’anticonformismo dei suoi esordi. Lo conferma questa conversazione con uno dei suoi artisti, Gian Marco Montesano.
Comodo sul divano del salotto di casa. Quella stessa casa che, nel 1981, accolse tra i tanti importanti artisti anche Jean-Michel Basquiat. All’apparenza placido il gallerista, circondato dai suoi artisti riassunti nei dipinti che aspettano sulle pareti. Carezzando Franco, simpatico cagnolino beagle, americano del Nebraska, Emilio Mazzoli forse definitivamente bonario... forse, precede la domanda e attacca per primo: «Questa è la terza intervista con “Il Giornale dell’Arte”, la prima la facemmo circa 33 anni fa, la seconda dopo quindici anni , e ora la terza... Oggi dopo tanto tempo siamo ancora qua, vivi e con lo stesso spirito...».
Bene. Però tu sai che c’è chi, da anni, pensa e scrive che i mercanti italiani, se preferisci diciamo pure galleristi, non siano all’altezza del gioco internazionale. Visti i trofei conquistati, tu sembri essere stato da Champions League. Che cosa pensi a proposito?
Per quanto in Italia i mercanti si siano preoccupati più del commercio che della costruzione del «teatro» dell’arte, più dei prezzi che del valore intrinseco, malgrado tutto ciò, per quel che riguarda il valore intrinseco penso il contrario, infatti credo che sia proprio il livello internazionale a non essere adeguato all’arte italiana.
Vorrei insistere, allargando la questione ad altri soggetti: mercanti o galleristi che dir si voglia e artisti. Sempre e solo loro in discussione ma, del piccolo mondo postmoderno cosiddetto «critico», che cosa pensi?
Gino De Dominicis definiva questo nostro come tempo del Kali Yuga, dominato da ignoranza spirituale, dunque un passaggio oscuro e malvagio. Restando a noi, manca oggi un rapporto intellettuale autentico tra i protagonisti primari dell’arte. Per esempio i cosiddetti «curatori», chi sono in realtà? Chi rappresentano? Che cosa curano? Quali sarebbero i malati? Ecco, queste sono le figure problematiche del sistema, altro che i galleristi. Dicendo del valore intrinseco dei rapporti intellettuali, oggi mancanti, tra i protagonisti primari dell’arte, mi riferisco a una storia che provo a sintetizzare in alcune domande: come immaginare de Chirico senza Apollinaire? I dadaisti senza Tristan Tzara? E, rara eccezione nel nostro tempo, come dire Transavanguardia senza Bonito Oliva?
Da gallerista che «tiene famiglia», cioè da mercante, che cosa pensi del proliferare delle fiere e delle aste, laddove avviene la distribuzione capillare del Viagra per piccoli speculatori vogliosi ma impotenti?
Tutto il male possibile. L’arte si fa in galleria. Sorvoliamo sulle fatiche economiche, l’Iva al 22%, il 4% del diritto di seguito, i collezionisti che, non potendo scaricare l’Iva, fanno difficoltà sul prezzo ecc... La vera questione consiste nel fatto che, mentre la galleria deve creare il lavoro, gli altri no, si limitano a sfruttare un lavoro già fatto dalla galleria. Però è anche vero che ci sono «gallerie-negozio» che vendono quadri riciclati, quasi mai comprati ma presi in «deposito», cioè trafficati senza responsabilità. In tutta la mia attività io ho sempre comprato le opere e le mostre, questo impegno economico è anche e soprattutto il simbolo della responsabilità del gallerista verso gli artisti e i collezionisti. Il lavoro nell’arte, per e sull’arte è, o dovrebbe essere, costruito su questo senso di responsabilità. Poi c’è il diffuso equivoco culturale che vede il gallerista come il «Mercante di Venezia» (nel nostro caso meglio dire «Mercante a Venezia»), il gallerista crudele come lo shakespeariano Shylock, mentre lo stesso stereotipo banale dipinge l’artista come un santo. In realtà gli artisti vogliono denaro e potere. La precedente generazione di artisti voleva soprattutto potere; caduta questa possibilità, oggi resta il denaro, per ottenere il quale si trovano sempre più asserviti ai potenti della finanza.
Qual è il tuo rapporto con le istituzioni artistiche regionali e nazionali?
Nessun rapporto organico: quando richiesto, ho sempre risposto sì. Le cosiddette istituzioni sono sempre pronte e attente quando si tratta di avere le opere; poi, se emergono, i problemi sono per la galleria.
Ricordando che, a parere di Ennio Flaiano, il peggio che possa accadere a un genio è l’esser compreso, Modena, poco riconoscente con Pavarotti, assai fredda con altri, ha capito Emilio Mazzoli?
Non sono un genio, ma rispondo egualmente: no! Comunque io ho voluto bene alla mia città, ne porto anche i segni fisici (tracce lasciate dal cibo, dal piacere di mangiare ecc...). Per quel che riguarda Pavarotti, la più bella voce del Novecento, anch’io, come altri in Italia, non ho apprezzato le contaminazioni del maestro con forme musicali cosiddette «leggere», sostanzialmente non primarie. Per me l’arte consiste nelle sue forme primarie (così per musica, poesia ecc...), non mi piacciono le contaminazioni. Quelle stesse sovrapposizioni e confusioni che suscitavano l’ironia di Gino De Dominicis. Ricordo il suo sarcasmo un giorno durante la Biennale di Venezia, a casa sua: manifestava un’infastidita sorpresa per il fatto che, quando si tratta di pittura, si premia un video, per la scultura l’arte applicata, e così via...
Prescindendo dagli aspetti economici, quali sono gli artisti più significativi per te dal punto di vista esistenziale?
Premesso che gli artisti con i quali ho lavorato e lavoro per me sono tutti egualmente bravi, l’ultimo che propongo è bravo come il primo. Innanzitutto voglio ricordare quelli che non ci sono più: Agnetti, Schifano, Festa, Angeli, De Dominicis, Boetti, Germanà, Salvo... fra i tanti. Mentre oggi, adesso, nel nostro lungo presente, dirò i cinque della Grande Avventura (Transavanguardia): Chia, Clemente, Cucchi, De Maria e Paladino. Poi, accanto ed esterno a questi, dico Franco Vaccari.
E Mazzoli americano? Cosa mi dici?
Con la Transavanguardia siamo andati negli Stati Uniti perché invitati, ci siamo andati con l’orgoglio d’essere italiani. Avevo occhi e orecchi buoni e mi guardavo attorno; così, in seguito, feci la prima mostra personale al mondo di Basquiat. Conobbi Alex Katz, allora quasi dimenticato, feci una sua mostra e altre negli anni seguenti: oggi Katz è tra gli artisti più considerati dal sistema. Poi le mostre di Robert Longo, David Salle, Ross Bleckner e le importanti mostre pubbliche col critico Robert Milazzo. Questi, in estrema sintesi, i miei rapporti con gli Stati Uniti.
E l’ultima mostra di Salvo?
Avevo conosciuto Salvo tre anni fa, gli proposi una mostra e cominciò così una bella avventura, tra noi cresceva la stima, avevamo grandi progetti, potevano nascere grandi cose, ma...
Intanto siamo usciti nel parco seguiti da Franco, il cagnolino del Nebraska, camminiamo tra gli alberi, fino alla vigna di Lambrusco, quasi un confine che ci separa dai terreni di Pavarotti dietro i quali il sole sta declinando. Emilio appare felice, mi indica un grande albero ferito da un grosso buco: «Vedi, questo dovremo curarlo, dentro al buco c’è il “bego”» (grosso verme detto in modenese, una sorta di parassita che si nutre della linfa dell’albero uccidendolo). Superato l’albero ferito, troviamo il ciliegio del quale nessuno riesce a cogliere i frutti poiché, non appena mature, le ciliege sono immediatamente divorate da fittissime formazioni di storni voraci e puntualissimi: «Ecco, questo dà delle ciliegie meravigliose per farle mangiare agli uccelli perché chi dovrebbe farlo non mette mai le reti di protezione in tempo giusto». E aggiunge: «Fin che potrò, mi occuperò degli alberi, dei beghi e della campagna, poi ci sono le siepi dalla salute delicata». Mazzoli è anche questo.
Concludendo, quali sono i tuoi progetti? Orientati verso dove?
Progetti? Tanti... fin che la salute lo consente. Orientati verso? Salvare quel che c’è dietro, cercando di restare con la mente aperta a quel che verrà. Non abbandonare gli artisti di prima e continuare a ricercare. Due, tre mostre l’anno con nuovi artisti. Quando non ci riuscirò più, mi vorrete bene... e la storia sarà finita.