Irene Sofia Comi
Leggi i suoi articoliLa nuova generazione di fotografi e artisti visivi guarda alla contemporaneità e ai suoi temi più critici con una consapevolezza e un desiderio di sperimentazione inediti. Futuro Presente vuole dare voce ai giovani talenti che rappresentano il futuro della fotografia; un futuro che è, forse, già presente. Sono infatti più urgenti che mai le tematiche affrontate dal lavoro di questi artisti visivi: dal cambiamento climatico alla decolonizzazione dello sguardo, dall'utilizzo degli archivi storici alla rilettura delle classiche pratiche di documentazione fotografica.
Davanti alle immagini di Irene Fenara, l’osservatore riconosce quel qualcosa o qualcuno che l’artista sta osservando, gli risulta familiare eppure non capisce esattamente «dove e come» sta guardando. Collocandosi nel territorio della post-fotografia (una fotografia dissolta, confluita nel più vasto territorio della circolazione dell’immagine), le opere di Fenara si collocano dentro a sguardi difficili da contestualizzare. Attraversando il mare magnum dell’attività visivo-tecnologica delle videocamere di sorveglianza di tutto il mondo, l’artista investiga e interpreta il modo in cui guardano le macchine, davanti alle quali ogni giorno la collettività si trova oggi a fare i conti. I lavori di Fenara, principalmente fotografie ma anche installazioni e video, mostrano il modo poetico di guardare di tali dispositivi. Sono immagini spesso poco chiare, sporcate da errori o ostacoli davanti all’obiettivo, un difetto di risoluzione o un’evidente alterazione cromatica.
Artista classe 1990, già presente in numerose mostre a livello istituzionale (come quelle a Fondazione Prada Osservatorio, nel 2016, e le più recenti a Fondazione Ica a Milano, nel 2022, e al MaXXI di Roma, in «Digital Antibodies», a cura di Ilaria Bonacossa con Eleonora Farina, terminata il 26 febbraio), Fenara sceglie un’estetica rigorosa che porta con sé alcuni quesiti: in quale modo guardiamo le immagini intorno a noi? Quale utilizzo facciamo delle immagini in movimento da noi create tramite dispositivi tecnologici di controllo? Che cosa accade quando l’occhio della macchina perde la sua funzionalità?
Abbiamo intervistato Irene Fenara per sviscerare le numerose questioni e implicazioni che attraversano la sua ricerca.
Alle volte nei suoi lavori «sfida» l’intenzionalità dello sguardo macchinico. In altri casi, al contrario, reinterpreta la codificazione di dati digitali in termini poetici, coltivando la capacità delle tecnologie di «comporre esteticamente». In che modo si sono costituite tali modalità all’interno della sua ricerca, e come stanno insieme?
Le immagini con cui lavoro provengono da dispositivi con una funzionalità molto specifica. Si tratta di videocamere di sorveglianza private a cui riesco ad accedere grazie a una serie di codici. Allo stesso tempo, queste videocamere sono in grado di produrre un’estetica per me molto potente. Si tratta infatti di visioni imprevedibili, eppure provenienti dal dispositivo più rigido e prevedibile a cui possiamo pensare. Le immagini che ne scaturiscono sono sorprendenti: vediamo qualcosa senza sapere che cosa stiamo guardando, né dove lo stiamo vedendo. Nel momento in cui tutto è sotto controllo, si tende a parlare solo di controllo. Quello che mi interessa invece sono gli elementi di contingenza in cui, all’interno di questa cornice, si manifesta la libertà. Vado alla ricerca di un equilibrio tra caso e controllo. Anche le macchine in fondo non sono solo macchine, cioè qualcosa che deve fare sempre la stessa cosa, ma possono sfuggire allo scopo univoco che l’uomo gli ha dato e manifestare qualcosa di bellissimo.
In molte delle sue opere il corpo è un soggetto che si manifesta nella sua assenza. Nell’osservare le fotografie, percepisco una tensione tra l’affermazione di una distanza e l’esercizio di un’empatia, rivolti verso videocamere, soggetti/oggetti in esse ripresi e fruitori. Che ruolo svolge nei suoi lavori la corporeità?
Per guardare ci vuole un occhio, e un occhio è sempre un corpo, anche se quel corpo che sta guardando è artificiale. In un certo senso, quindi, un corpo è sempre presente, quello che produce l’immagine così com’è corpo l’immagine stessa. Per me è molto importante il momento della stampa, nel caso delle fotografie, così come della scelta del supporto nel caso dei video, perché è l’unico modo per dare corpo a immagini che nascono, e nella maggior parte dei casi muoiono, online.
Un tema che ho rintracciato nella sua ricerca più recente riguarda la rappresentazione animale attraverso videocamere di sorveglianza, e quindi, astraendo maggiormente l’analisi, prende in considerazione il binomio macchina-animale. Quando nasce l’interesse per questa dimensione? E come viene restituito dall’occhio della macchina?
Ultimamente sto pensando molto al fatto che la visione delle macchine possa essere accostata, in un certo senso, alla visione animale. Ogni videocamera che utilizzo nel mio lavoro vede in maniera diversa, a seconda del modello, come gli animali che, a seconda della specie, vedono in maniera differente, ma soprattutto vedono in maniera diversa rispetto all’essere umano. Ad esempio c’è una certa marca di videocamere che percepisce in maniera errata la luminosità e quando c’è troppa luce modifica i colori rispetto ai quali noi siamo abituati a vedere e questo mi fa pensare che in fondo sia solamente il modo particolare di vedere di quella specifica macchina, più che un errore. Come un gatto che percepisce solamente alcuni colori, come il viola e il giallo, così quella macchina trasforma l’eccesso di luce in colore rosa e tutto quello che sta attorno alla luce diventa verde. La videocamera di sorveglianza poi è uno strumento che ha dei grandi limiti tecnici e produce molti errori di percezione. L’errore in realtà, secondo me, è la caratteristica principale, la specificità di un dispositivo rispetto a un altro, quello che determina la sua visione. Riuscendo a immaginare che quella videocamera rappresenti un punto di vista sul modo e, in quanto tale, incarni anche una soggettività, seppur inumana, non umana o più che umana, diventa allora possibile mettere in crisi il pregiudizio antropocentrico secondo il quale la visione dell’uomo sia l’unica possibile.
Le sue immagini intrattengono una stretta relazione con la pittura, sconfinando alle volte anche in altre forme espressive imparentate con il linguaggio pittorico. In che cosa affonda le radici questo rapporto? E quale ruolo gioca il colore nelle sue opere post-fotografiche?
La bassissima qualità dei dispositivi che utilizzo spappola i pixel, modifica i colori, trasmette dati in maniera alterata e sfoca. In più la videocamera è spesso vittima degli agenti ambientali che la circondano e tutto questo concorre a dare alle immagini un carattere quasi pittorico perché la visione passa sempre attraverso una lente, è sempre mediata. Rivedo, inoltre, in queste immagini, sicuramente tutto un mio rapporto con la storia dell’arte, dalla pittura fiamminga di grandi paesaggi alle prime sperimentazioni fotografiche dei pittorialisti d’inizio Novecento.
Crea fotografie che consistono in un fermo immagine proveniente da un girato filmico. In altre occasioni pensa invece l’immagine direttamente in movimento, producendo video. Che relazione hanno il linguaggio fotografico e il linguaggio filmico nella sua pratica? Nel porre questa domanda, penso anche all’ultimo lavoro «Struggle for Life ๏», presentato al MaXXI di Roma.
A volte uno screenshot è sufficiente mentre a volte sento la necessità di registrare ciò che sta accadendo perché trovo significativo il flusso delle immagini in movimento. Come la lotta che ho fatto in «Struggle for Life ๏» con una videocamera per convincerla a guardare per un poco il cielo. In una delle ultime mostre a cui ho partecipato, «Digital Antibodies», a cura di Ilaria Bonacossa al MaXXI di Roma, ho esposto questo video su un iWatch indossato dagli assistenti di sala. In quel caso addirittura il video veniva indossato in un rapporto ancora più intimo con un corpo rispetto anche a quello che abbiamo con il telefono o altri supporti. L’orologio, come l’assistente di sala, come le videocamere da cui il video proviene, sono strumenti di controllo che vengono però smontati di questa loro funzione, viene smontata anche la supposta asimmetria tra controllore e controllato e ne rimane un’interazione, perché quei corpi, quelli dei guardia sala, modificano la propria posizione, diventando soggetti esposti a possibilità di dialogo non prevedibili in anticipo.
Nella sua pratica la dimensione processuale e quella d’archivio rivestono un’importante presenza. Come coniuga questi due aspetti?
Solitamente arrivo a un’immagine in maniera accidentale, a volte possono passare ore senza incontrarne nessuna e a volte l’immagine è già lì al primo tentativo. L’osservazione è sicuramente fondante nella mia prassi processuale e occupa molto spazio nella ricerca. L’archivio poi è un primo livello di scelta perché l’immagine diventa qualcos’altro, solamente con dei criteri di selezione. Se c’è qualcosa di potenziale bisogna poi essere in grado di riconoscere ciò che è significativo per salvarlo, basta accorgersene. Questo è per me l’archivio, uno spazio nato in maniera spontanea ma con alcune regole che mi sono data, in cui posso anche contraddirmi se necessario e così ampliarlo. Quando salvo un’immagine non penso già a come sarà poi la sua formalizzazione o l’installazione, penso solo all’immagine. Quando esce dall’archivio, anche anni dopo averla salvata, l’immagine viene ripensata secondo altri criteri o visioni, anche successivi e rinnovati rispetto alle motivazioni originarie.
Come si è avvicinata alle videocamere di sorveglianza? Nel lavorare con l’universo da loro registrato, i suoi intenti riguardano una presa di posizione nei confronti della società del controllo (così spesso viene letto il suo lavoro) o sono un tentativo di dialogo con l’occhio meccanico, dove naturale e artificiale sono in armonia, per dirla con un’espressione di Dziga Vertov?
Mi ha sempre interessato la difformità degli sguardi che diversi dispositivi producono. In passato ho sperimentato alcuni strumenti in grado di produrre immagini alternative a una macchina fotografica tradizionale, ma quando ho scoperto le modalità con cui funzionano le videocamere di sorveglianza private ho intravisto un grande potenziale nel suo significante. Mi interessa però maggiormente parlare di controllo cercando di disinnescarlo, portando in primo piano la parte estetica che è per me significativa perché parla di possibilità. Non mi interessa una retorica sulla società del controllo che ci vede solamente vittime. C’è sempre anche un’altra eventualità, che danneggia il meccanismo del controllo. Come il fatto che il lavoro che riesco a fare sia alla portata di tutti, accessibile, e che in fondo siamo noi stessi i primi che ci autostalkeriamo, auto-segnalandoci costantemente tutti i giorni.
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