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Michele Rodsa
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In un mondo in emergenza nasce un’architettura del riuso, povera e collettiva: alla Biennale di Aravena si affaccia una realtà in cui, spiega Paolo Baratta, «non è più il tempo degli architetti che attendono la telefonata dello sceicco»
La Biennale del rifiuto convince tutti. Si posizionano sul filo del paradosso i fronti di Alejandro Aravena, l’architetto cileno che ha curato «Reporting from the Front», la 15. Mostra Internazionale di Architettura in corso fino al 27 novembre ai Giardini e all’Arsenale nonché in vari luoghi di Venezia, formandola a sua immagine, mischiando una buona dose di politicamente corretto con tante architetture senza autore, allestimenti evocativi con ibridazioni disciplinari.
Insomma Aravena ha costretto tutti a salire sulla scala da cui Maria Reiche, l’archeologa ripresa da Chatwin nella foto emblema della mostra, cercava punti di vista alternativi. «L’architettura si occupa di dare forma ai luoghi in cui viviamo. Non è più complicato, né più semplice di così». Dietro un approccio elementare c’è uno sguardo che Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia, dipinge così: «Non è più il tempo degli architetti che in studio attendono la telefonata dello sceicco». È una prospettiva per certi versi rivoluzionaria: spariscono le città come le abbiamo interpretate per decenni, l’architettura si arricchisce di altre dimensioni (sociali, politiche, economiche, ambientali) e diventa il medium tra i fenomeni globali (le guerre, le migrazioni, un’idea di sostenibilità non difensiva, come spiega l’ulivo piantato da Epea Internationale Umweltforschung ai Giardini) e il dettaglio del materiale (come nell’elegante lavoro di Studio Mumbai alle Corderie dell’Arsenale).
Meglio ancora se il materiale è di riuso. Perché è proprio questa una chiave di lettura di un percorso espositivo che si apre con due sale emblematiche. Quella di ingresso all’Arsenale suggestiona con lo smembramento e la risignificazione di centinaia di metri quadrati di pareti in cartongesso (superstiti della Biennale Arte 2015) recuperati e riarticolati: sopra le teste pendono i profili in alluminio, sulle pareti le lastre sono posate di taglio a realizzare un’inattesa texture.
Anche il percorso nel Padiglione Centrale dei Giardini parte con l’eccellente reinterpretazione di un materiale. L’opera è di Gabinete de Arquitectura che mette in scena una struttura in mattoni, imponente ma assemblata da manodopera non specializzata. Il messaggio è chiaro: la qualità non è soltanto investimenti, è alla portata di tutti. Approccio che è valso il Leone d’Oro come miglior partecipante.
D’altronde, scorrendo la lista dei premiati, questa Biennale parla soprattutto spagnolo e guarda ai luoghi dei conflitti, sociali e politici. È qui che l’architettura può piantare i semi di un futuro diverso: come quelli del Padiglione Sudafrica che racconta un’azione di guerriglia urbana che trasforma dal basso alcuni luoghi pubblici di Pretoria. E ancora il Sudafrica è protagonista, nel Padiglione Centrale dei Giardini, con un progetto (di designworkshop: sa) in cui società e architettura vanno a braccetto: il Warwick Triangle di Durban è un luogo difficile, una ong ha provato a trasformarlo creativamente inventandosi un mercato in spazi di risulta. Africana è anche la grande installazione in legno ormeggiata da Nlé (Leone d’Argento) nel bacino dell’Arsenale: una scuola galleggiante per Makoko, baraccopoli di Lagos, Nigeria, che porta un servizio dove più è necessario, in un territorio che cambia per le mutazioni climatiche.
Esigenze spesso delocalizzate come comunicato con un’altra installazione (di Org Permanent Modernity, a pochi metri dalla prima ma sulla banchina) che ricrea con pannelli in calcestruzzo prefabbricato un mercato di Bruxelles frequentato quasi esclusivamente da immigrati. Perché il mondo visto da Venezia è attraversato da flussi inarrestabili. Gioca su queste ambiguità un’altra installazione, «Darzanà», vascello sospeso nel Padiglione Turchia, realizzato con pezzi ritrovati nell’Arsenale, ma di Istanbul. Rimanda ai viaggi nel Mediterraneo così come «Heroic: Free shipping», la ricostruzione di una forma di nave, interamente blu, del Padiglione Serbia.
Ma il movimento è anche sulla terraferma in nuovi spazi pubblici come quelli progettati da Jiakun Architects nel West Village di Chengdu, Cina: sistemi di passerelle che costruiscono una sorprendente continuità di percorsi. Non sono un caso, in questo quadro fluttuante, le forme inaspettate dei Paesi più rassicuranti: la grande piramide tronca in legno dei Paesi Nordici, il vuoto esplorabile ricavato in una nuvola cava in fibrocemento del Padiglione Svizzera.
Ma c’è soprattutto il Padiglione Spagna (Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale) che con allestimento sobrio racconta le costruzioni interrotte dalla crisi, dando al tempo il ruolo di fattore decisivo della contemporaneità. Lo stesso Padiglione Italia è inteso non come punto di arrivo ma di partenza e presenta progetti destinati a essere realizzati, attraverso raccolte fondi, in situazioni di disagio. «Taking Care», il titolo, è coerente con le parole di Baratta che, presentando con soddisfazione i numeri di un’edizione già di successo, dice: «Ci interessa la consapevolezza che l’architettura, se è utile per realizzare beni pubblici, è essa stessa un bene pubblico». Eccolo il nuovo fronte. L’architettura è questa. Almeno per i prossimi due anni.