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I musei, le nostre libido e la memoria delle spoliazioni

I musei, le nostre libido e la memoria delle spoliazioni

Bénédicte Savoy

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Parigina residente a Berlino, Bénédicte Savoy, docente dal 2009 di Storia dell’arte come storia culturale alla Technische Universität, è stata eletta al Collège de France per insegnare Storia culturale del patrimonio artistico d’Europa (una cattedra istituita per lei). Nella sua lectio introduttiva invita a gioire delle bellezze raccolte nei musei europei che gratifica le nostre tre libido classificate da Sant’Agostino (sentiendi, sciendi e dominandi) ma esorta a non dimenticare la violenza sottostante e le spoliazioni dei patrimoni sottratti alla cultura dei Paesi d’origine


Si sente a volte dire che l’arte dà coraggio. O forza. O allegria. Di fronte agli affreschi toscani del XV secolo il grande storico dell’arte Henri Focillon diceva persino di provare un sentimento di sicurezza intellettuale. Io non so che cosa sia la sicurezza intellettuale di fronte a un’opera d’arte, ma so che me ne servirebbe, e anche tanta, per prendere la parola qui al Collège de France. Ho pensato che potrebbero darmela tre opere che normalmente si trovano sul mio tavolo di lavoro a Berlino, che fanno parte del mio paesaggio, come si dice, e come tre vecchie amiche hanno viaggiato per condividere questo tavolo con me, il più lungo e quello che mette più soggezione di tutta la storia degli arredi accademici. Ciò che in questo istante condividono con me, che ritorno a Parigi dopo 24 anni passati a Berlino, è una certa esperienza di disorientamento. Il disorientamento è, per esempio, parlare in pubblico nella propria lingua madre di cose pensate in un’altra lingua. Passare da una lingua all’altra corrisponde a passare da un modo di pensare a un altro, da uno spessore storico a un altro, da certe emozioni e riferimenti collettivi ad altri. Per definire le persone come me la lingua francese ha inventato il termine espatriato che nei dizionari del XVIII secolo è sinonimo di assente. Assente per gli uni, presente per gli altri. A questo riguardo l’espatriato e il patrimonio culturale hanno un destino comune. Dell’espatrio queste opere hanno un’esperienza ben maggiore della mia.
La prima è la testa di Akhenaton, marito di Nefertiti e probabile padre di Tutankhamon, scolpita 34 secoli fa da un artista egizio, scoperta 100 anni orsono nelle sabbie di Tell El Amarna da un archeologo berlinese, trasportata sull’Isola dei musei a Berlino nel 1913 dove ha elettrizzato le avanguardie artistiche, letterarie e i pionieri della psicoanalisi, da Rainer Maria Rilke a Thomas Mann, passando per Karl Abraham e Sigmund Freud. Dal 1914 i musei commercializzano una copia di questo Akhenaton che pare si venda piuttosto bene. La mia è del 2012.
C’è poi una figura rivestita di perle originaria della regione di Foumban nell’Ovest del Camerun. La sua struttura in legno è ricoperta di tessuto tutto ricamato di perle di vetro multicolori. Le statue perlate sono tra le opere più conosciute del patrimonio culturale dei Bamileke, più in particolare del sultanato di Bamun. Se ne trovano in tutti musei del mondo. Il mio esemplare ha le perle di plastica e un piede rotto. Era nella vetrina di un negozio della Knesebeckstrasse nell’ex Berlino Ovest quando l’ho trovato. Il venditore, tedesco, non ha voluto o non ha saputo dirmi la sua età, né la sua origine. Proviene certamente dal Camerun, ma è stato realizzato per i turisti e antichizzato con una patina scura.
La terza opera è uno stampo in gesso realizzato a partire da una statuetta di Niccolò dell’Arca ritenuta scomparsa dal 1945. La sua ultima collocazione nota è il Bunker di Friedrichshain a Berlino dove erano state messe al sicuro le collezioni dei musei durante la seconda guerra mondiale. Rappresenta il monaco francescano Bernardino da Siena, morto nel 1444, che aveva l’abitudine di leggere camminando. Un mercante di Bologna l’ha venduta ai musei di Berlino nel 1897 per la somma di 2mila marchi, cioè per la metà dello stipendio mensile del cancelliere del Reich dell’epoca. Fino al 1930 ne esisteva un’altra versione nella raccolta del grande imprenditore ebreo di Vienna Albert Figdor, uno dei più importanti Collezionisti d’arte antica del suo tempo. L’originale di Berlino è forse andato distrutto durante l’incendio del Flakbunker nel 1945 oppure portato in Unione Sovietica dall’Armata Rossa e rimasto nascosto da allora come altre migliaia di opere o forse è stato preso come souvenir da un soldato americano alla fine della guerra. Per designare questo genere di opere di cui si sono perdute le tracce i tedeschi si sono accordati sul termine: «verschollen», derivato da «verschallen» che significa «che ha smesso di fare eco». Dell’originale scomparso resta oggi soltanto una fotografia in bianco e nero e un calco realizzato dal laboratorio dei musei di Berlino. È da questo che è stato realizzato il mio Bernardino. 


Akhenaton, Bernardino, il suonatore di tamburo bamileke… Tre opere, tre semafori, come direbbe Krzysztof Pomian, tre idee del Bello e dell’arte.  Come le centinaia di migliaia di oggetti conservati nei musei del mondo, hanno viaggiato, subito danni, sono stati restaurati, copiati, stampati, trasformati, sono stati oggetto di appropriazioni simboliche e reali, hanno un valore affettivo (per me per esempio), culturale, storico, materiale, economico, politico, locale e globale. E soprattutto hanno attraversato il tempo. Akhenaton ha circa 3.367 anni, di cui 3.260 sotto la sabbia e 83 in una vetrina di museo, il resto in un bunker durante la guerra. Bernardino ha circa cinque secoli e mezzo, di cui 45 anni di museo e 72 da quando è scomparso. La figura perlata del Camerun non è più vecchia di voi o di me, ma la tecnica di cui è testimonianza ci porta nell’Africa del XVII secolo. È nell’ampiezza di questi spazi e di queste temporalità che si inscrive la cattedra di Storia culturale dei patrimoni artistici in Europa istituita per me.
Vi ringrazio di accogliermi oggi in seno alla vostra prestigiosa assemblea. La mia gratitudine è particolarmente rivolta a Marc Fumaroli, gran conoscitore dell’arte e dei musei che mi ha accordato la sua fiducia e il suo sostegno, a Carlo Ossola e Antoine Compagnon, che hanno difeso la creazione di questa cattedra, all’amministratore del Collège de France Alain Prochiantz, che ha reso possibilea con il presidente della Technische Universität di Berlino Christian Thomsen, una specie di miracolo franco tedesco. Come tutte le cose viventi, questa cattedra ha un dna a doppia elica: da una parte Michel Espagne, che mi ha fatto appassionare ai «transfert culturali» e alla storia transnazionale, dall’altra Pierre Rosenberg, che mi ha fatto amare il mondo dei musei, dei conservatori e dei collezionisti. Ringrazio anche Thomas Gaehtgens ed Etienne François che, uno a Parigi e l’altro a Berlino, hanno guidato questa generazione di giovani storici che, come me, non avevano ancora vent’anni quando il muro di Berlino è caduto. Un pensiero particolare infine va alla straordinaria Elisabeth Beyer.
Ma più ci penso e più parlo, meno queste tre opere mi infondono l’atteso sentimento di sicurezza. Al contrario. Certo sono indice (è una caratteristica dell’arte) di una spiritualità; testimoniano della creatività della specie umana al di là delle epoche e delle frontiere. In questo senso sono dei valori stabili e sicuri. Tuttavia è un sentimento di inquietudine che mi assale in questo faccia faccia tra loro e voi. Perché quello che questi oggetti raccontano sono storie di guerra e di rottura, di memoria e di oblio, di linee confuse, di espropriazioni e di catture, storie, converrete con me, che destabilizzano più che rassicurare. Non so dire davvero chi guardi chi. È un’assemblea di donne e uomini perlopiù europei a posare i suoi multipli sguardi su questo ritratto egizio, su questo tamburino del Camerun e su questo monaco del Rinascimento? O è forse il contrario: sono l’egiziano, il camerunese e l’italiano del Rinascimento che guardano noi come hanno guardato generazioni di mortali prima di noi e come guarderanno le generazioni a venire? Entrambe le cose naturalmente. E l’inquietudine che genera questo incrocio di sguardi è un’inquietudine positiva, di quelle che fanno venire voglia di saperne di più e meglio, modificando le prospettive, le focali e le scale, attribuendo agli oggetti un valore di fonte storica a pieno titolo, pensando il patrimonio culturale come un incontro sempre nuovo tra mortali (noi) e immortali o quasi (loro). Ogni ricerca scientifica parte, io credo, da questo motore di inquietudine positiva.
Dal Medioevo esistono una Russia tedesca, una Germania italiana, un’Italia normanna, una Francia inglese. Dopo avere partecipato a lungo allo sforzo comune a tutte le scienze umane di definire in Europa delle identità collettive omogenee, contrapposte le une alle altre e ritagliate secondo logiche di affermazione nazionale, la storiografia ha intrapreso in questi ultimi anni una revisione sistematica delle costruzioni ereditate dal XIX secolo. I «transfert culturali» di Michel Espagne, la «storia incrociata», le storie «connected» (connesse), «shared» (condivise) o «entangled» (correlate) collocano l’ibridazione e la migrazione nel cuore stesso dell’idea di cultura. Esse rifiutano di considerare le entità nazionali come spazi chiusi. Insistono al contrario sul processo di incroci transfrontalieri e sugli intrecci multipli tra aree culturali a volte distanti.
In questo contesto storiografico la creazione di una cattedra di Storia culturale dei patrimoni artistici in Europa è la prova della preoccupazione che vi anima di fare entrare la storia degli oggetti al Collège de France. Non che gli oggetti siano stati finora assenti da questi luoghi, al contrario. La maggior parte delle discipline da secoli insegnate qui «en train de se faire (facendo, mettendo in opera)», secondo il vostro bel motto, hanno per soggetto degli oggetti; penso alle cattedre di Civiltà mesopotamica, faraonica o dell’Asia Centrale, di Archeologia mediterranea, di Antropologia e di Creazione artistica. Quello che mi piacerebbe tentare, superando le suddivisioni cronologiche e le aree culturali, privilegiando i temi a rischio e moltiplicando le prospettive, sono soprattutto due cose: 1. Esplorare, tramite gli oggetti, le possibilità di scrittura di una storia transnazionale dell’Europa, che darebbe spazio al dialogo tra discipline e storiografie. 2. Considerare la questione dei musei, delle collezioni e della cultural property come fatti antropologici e politici di primaria importanza della nostra epoca e sfide per l’avvenire. In questo senso, la cattedra di Storia culturale dei patrimoni artistici è anche una cattedra di storia sperimentale e in prospettiva. Essa rivendica il diritto al dubbio, il diritto all’errore, il diritto all’indeterminatezza. Non si oppone alla storia dell’arte «classica». Dialoga con essa, la completa e se ne nutre.
Prima del 1789, sotto l’Ancien Régime, «quando l’Europa parlava francese» (Marc Fumaroli), le opere collezionate dall’aristocrazia e dai sovrani europei sono funzionali soprattutto a quelle che Charlotte Guichard definisce le «politiche del gusto». Da San Pietroburgo a Lisbona, da Stoccolma a Napoli, passando per Londra, Dresda o Vienna, una fitta rete di gallerie e di musei porta ovunque in Europa, tranne che in Francia dove non esistono ancora i musei pubblici, il progetto di un’educazione estetica dell’uomo. «È attraverso la bellezza che si arriva alla libertà» scrive Friedrich Schiller. I sapienti della République des Lettres, che sono mobili e poliglotti, si spostano per andare incontro a questa bellezza là dove essa si trova: a Roma, a Napoli, nei musei pubblici d’Italia e di Germania. Montesquieu considera a Düsseldorf che la Galleria dei quadri «sarebbe molto bella anche a Roma» e che «non ha uguali in Germania». Il pittore Fragonard e il suo amico Bergeret trovano che la Galleria di Dresda è una «risorsa inesauribile per gli esperti d’arte e per gli amatori [che] perdono un sacco di tempo in Italia» e che dovrebbero piuttosto «gettarsi nelle belle gallerie di Dresda, Düsseldorf, Mannheim». In questa Europa dei Lumi l’antichità greco-romana, la pittura italiana e quella fiamminga formano in Europa l’orizzonte di un gusto e di un sapere comuni.
Ma già, nella stessa epoca, un piccolo popolo di oggetti nuovi e sradicati ha fatto il suo ingresso nel paesaggio culturale europeo. Ad Amsterdam, Londra o Parigi, a partire dal XVIII secolo si commerciano sul mercato dell’arte oggetti venuti da lontano, dalle Americhe, dalla Cina e dalle Indie, gli exotica come vengono definiti, spesso trasformati per essere più facilmente vendibili. Le spedizioni scientifiche si moltiplicano. Quelle di James Cook nel Pacifico si ripagano grazie all’ingresso di svariate centinaia di oggetti etnografici nel museo di Göttingen, nonché a Vienna e a Oxford. L’Oceania si installa negli armadi e nelle vetrine delle capitali europee. La lenta incorporazione di questi oggetti non europei disturba piacevolmente le certezze estetiche, storiografiche e antropologiche stabilite. Che cos’è la bellezza? Che cos’è l’arte? Che cosa siamo «noi» e che cosa sono gli altri? Ecco le domande generate all’epoca dai copricapi di piume, dalle armi di conchiglia, dalle pelli e dagli strumenti musicali  venuti da lontano. Sotto l’Ancien Régime tuttavia possedere materialmente l’oggetto e appropriarsene intellettualmente restano categorie distinte.
È la Rivoluzione francese a imporre all’Europa questa nuova idea, di cui i nostri musei sono i diretti eredi, secondo la quale l’appropriazione intellettuale degli oggetti d’arte e di scienza, come allora vengono chiamati, è necessariamente legata alla loro appropriazione materiale. Che in qualche modo sia necessario possedere Roma a Parigi per studiare l’Antichità o possedere l’Egitto a Torino, Londra o Berlino e, più tardi, a New York o Boston perché l’egittologia scientifica possa fare il proprio lavoro. Nelle visioni più esaltate dei teorici della Rivoluzione, i tesori dell’umanità devono essere riuniti a Parigi per garantire il progresso delle scienze e far dimenticare al mondo intero che il patrimonio della Francia, fino ad allora, è stato piuttosto rappresentato dalla dissolutezza e dal lusso. Cito il grande legislatore protestante François-Antoine Boissy d’Anglas, siamo nell’anno II, cioè nel 1794: «Che Parigi sia dunque la capitale delle arti, che ritrovi nell’inestimabile privilegio di essere l’asilo di tutte le conoscenze umane e il deposito di tutti i tesori dello spirito un nuovo splendore più eclatante di quello che derivava dal suo lusso, dai suoi falsi piaceri e da tutti gli abusi che creavano, in qualche modo, la sua dote e il suo patrimonio: deve essere scuola universale, metropoli della scienza umana, ed esercitare sul resto del mondo questo dominio irresistibile dell’istruzione e del sapere». Difficile descrivere in modo più esplicito il legame tra l’accumulazione di oggetti, la produzione del sapere e i fantasmi di dominio universale. Al punto che si è tentati di mettere in relazione gli oggetti del desiderio e il desiderio di oggetti ai nostri giorni con le categorie di libido descritte da Sant’Agostino poi rivisitate in senso laico nei secoli XIX e XX: la libido sentiendi, che è il desiderio dei sensi in termini generali, la libido sciendi, che è il desiderio di conoscenza, e la libido dominandi, che è il desiderio di dominio.
Quando si entra al Collège de France, non intendo in modo istituzionale ma fisicamente, si viene accolti, al centro del cortile d’onore, da una statua opera di Fréderic-Auguste Bartholdi, l’autore della Statua della Libertà. Essa rappresenta Jean-François Champollion. Nato con la Rivoluzione Francese, troppo giovane per partecipare alla spedizione in Egitto di Bonaparte, ma allievo del Collège de France dall’adolescenza, nominato conservatore delle collezioni egizie del Musée Charle X (Louvre) a 36 anni e primo a occupare una cattedra di Egittologia al Collège de France qualche anno più tardi, è il rappresentante tipo di questa generazione di europei, al contempo attore e testimone del grande boom dei musei universali nell’Europa del XIX secolo.
È successo dieci giorni fa. Difficile descrivervi il mio stupore o, diciamo, la mia incredula costernazione quando nel cortile del Collège de France ho guardato la statua di Champollion per la prima volta. Intendo dire guardato veramente. Ero in anticipo per un appuntamento. L’avevo già vista mille volte, certo, ma oggi si guardano poco o male questi monumenti alle glorie nazionali che la Terza Repubblica ha disseminato nelle nostre città. Voluti da commesse pubbliche, sono documenti emblematici dell’alleanza tra ideologia ed estetica, soprattutto quando alla fine del XIX secolo lo Stato si propone tramite essi di «arrivare» agli uomini e alle donne della strada. Oggi li si guarda senza vederli; fanno parte dell’arredo urbano così come già alla fine degli anni Settanta constatò Maurice Agulhon sottolineando come la statuaria pubblica non fosse più considerata «né dall’automobilista che passa veloce e nemmeno dal pedone». Avevo un po’ di tempo e ho guardato Champollion. È un giovane uomo mastodontico (misura due metri e quaranta) che sembra avere trent’anni. Veste una stretta redingote, delle culotte attillate e dei corti stivali. Ha dei tirabaci. Appoggiato sul gomito, la mano sotto il mento, rivolge al suolo uno sguardo indefinibile, tanto le intemperie e l’inquinamento hanno alterato la superficie del suo viso. Il marmo bianco di cui è fatto è abraso e sporco. La sua gamba sinistra è molto sollevata, come quella di un viaggiatore che abbia appoggiato il piede su una roccia in una sosta. Ma non è una roccia quella che ha sotto il piede. È la testa di un faraone che potrebbe essere Ramses II decapitata da una statua dell’antico Egitto. Lo zoccolo della statua riporta a grandi lettere il nome di Champollion. L’opera è datata e firmata sul lato destro: Auguste Bartholdi, 1875. Il piede dello studioso calcato sulla testa sacra del faraone… Vedendo questo, sono stata assalita da quello spavento che Walter Benjamin (e la mia amica germanista Karine Winkelvoss) chiamano: il ricordo del mai visto. Il ritorno della spinta coloniale nell’incrocio fortuito di temporalità divergenti: la mia, quella di una mortale berlinese-parigina del 2017 che non ha mai veramente prestato attenzione all’iconografia politica dei grandi uomini per strada e aspetta di incontrare una persona nel cortile del Collège de France. E la sua, quella di una statua di marmo vecchia di un secolo e mezzo che dopo decenni racconta ancora a chi l’ascolta ciò che raccontava già nel 1875 quando la Francia e l’Europa dominavano il mondo. Nell’arte occidentale l’iconografia del piede sulla tasta recisa è riservata alla rappresentazione di Davide vincitore su Golia. O, quando la testa è quella di una bestia feroce, all’immagine di arcangeli o di santi che sconfiggono il demonio. Che cosa ha voluto dire Bartholdi? Lo ignoro.
Ciò che è certo è che la statua di Champollion racconta di più sulla storia dei patrimoni culturali in Europa di qualsiasi libro, di qualsiasi corso e di qualsiasi lezione inaugurale in materia. È come l’allegoria di questa storia, nel senso stretto dell’allegoria, che vuol dire «parlare in pubblico, ad alta voce, in modo diverso». Ciò che secondo me dà a vedere, con tutta la sua insolenza di opera d’arte creata per durare, è la combinazione delle tre libido che prima evocavo: quella sensualmente rivolta verso la bellezza di questo viso di faraone; quella intellettualmente impegnata, col giovane studioso, a decifrare le vestigia di una civiltà scomparsa; e quella che si manifesta, piede sulla testa, nell’atto di dominio.
Quando la si guarda oggi, nel 2017, la statua di Champollion è un documento al contempo insopportabile e prezioso. Essa invita pubblicamente, in una delle istituzioni più capaci di farlo, a pensare a ciò che non è stato pensato sul patrimonio culturale e sui musei in Europa. Essa ricorda in ogni momento, a cielo aperto, che la medaglia lucida e dorata della cultura e del sapere ha sempre o quasi, in Occidente, un’altra faccia di violenza simbolica e reale. Che esiste un versante diurno del patrimonio culturale in Europa e un versante notturno. Che i due aspetti sono indissociabili. Che bisogna sforzarsi di pensarli insieme, come un’unità contraddittoria. Che all’interno di un museo, bisogna vedere allo stesso tempo gli oggetti dove si trovano e dove non sono più, cioè nelle regioni da cui sono stati prelevati. Gioire della bellezza e del sapere accumulati nelle nostre città per secoli, ma gioirne nella piena consapevolezza delle condizioni di raccolta degli oggetti in contesti economici, militari, epistemologici asimmetrici. Rendere visibili, per meglio gestirle, le contraddizioni interne e le flagranti tensioni che determinano l’idea stessa di museo dalla sua origine. Prestare molta attenzione agli sguardi e alle voci dei derubati. E avere bene in mente ciò che Barbara Cassin hanno mostra in modo convincente: che i termini «museo» e «patrimonio», e i concetti da cui derivano, sono tra i più intraducibili delle lingue europee.
Champollion ha quattro anni quando la Francia mette in pratica la sua dottrina del patrimonio liberato, secondo la quale le arti, essendo un prodotto della libertà, devono essere riunite nel Paese della libertà, cioè in Francia. Ha sei anni quando l’Apollo del Belvedere e il gruppo del Laocoonte, le celeberrime statue antiche scoperte a Roma nel Cinquecento e da allora conservate senza interruzione nelle collezioni pontificie, vengono confiscate al Vaticano per ordine del Direttorio e trasportate a Parigi per essere esposte al Louvre. Ha sette anni quando le «Nozze di Cana», dipinte da Veronese per il convento veneziano di San Giorgio Maggiore, sono staccate dal loro collocazione originale nel refettorio e portate in Francia. Ha undici anni quando l’armata britannica confisca agli studiosi di Bonaparte una parte dei reperti trovati in Egitto, tra cui la celebre Stele di Rosetta che viene spedita a Londra a titolo di trofeo militare e da allora esposta al British Museum. Ha vent’anni quando il Governo britannico decide di acquistare le centoventi tonnellate di marmo dei fregi del Partenone trasferiti a proprie spese dalla Grecia in Inghilterra dal diplomatico Lord Elgin e ancora oggi reclamati da Atene.
Museo, Nazione, Patrimonio: nel XIX secolo la triade francese così magistralmente studiata da Dominique Poulot allunga la sua presa sull’Europa. Berlino, Londra, Parigi, Vienna e San Pietroburgo, per non citare che queste città, investono somme da capogiro nell’allestimento dei loro musei, che sono oggi i nostri musei. Si spiano a vicenda. La storia dell’arte, l’archeologia e l’etnologia nascenti estenDono le loro rispettive reti sull’Europa e sul mondo. I musei di Londra, Parigi e Berlino imperversano nel mercato dell’arte dell’Italia unificata e rivaleggiano ingegnosamente per ottenere l’autorizzazione a esportare opere importanti. La Spagna del Secolo d’oro affascina le capitali del Nord. In pochi anni Berlino riunisce la più grande collezione di quadri di Rembrandt mai raccolta fuori dai Paesi Bassi.
Allo stesso tempo, nell’ultimo quarto del XIX secolo, un’élite di collezionisti privati provenienti dall’alta borghesia d’affari cosmopolita acquista sul mercato dell’arte opere di eccezionale valore, formando collezioni di portata mondiale in tutte le grandi città europee, Costantinopoli/Istanbul, Mosca e Atene comprese. La arti decorative, la scultura e l’oreficeria medievale, gli arazzi, le arti islamiche e dell’Estremo Oriente, il Rinascimento italiano e la pittura olandese del XVII secolo, le stampe e il disegno si disputano sul mercato dell’arte i favori di questi collezionisti esperti e facoltosi, dalle motivazioni spesso filantropiche e patriottiche. Investire in una collezione d’arte antica è dar prova non solamente di cultura e di gusto, ma anche di patriottismo; la pratica dei legati e delle donazioni ai musei nazionali dei diversi Stati viene incoraggiata dai Governi e ampiamente seguita dai collezionisti.
Adolphe Schloss, David e Pierre David-Weill o Alphonse Kann a Parigi, Calouste Gulbenkian e i Rothschild tra Parigi e Londra, James Simon a Berlino, i Camondo a Istanbul e poi a Parigi: i più grandi collezionisti dell’epoca provengono spesso da famiglie ebree e i musei pubblici beneficiano regolarmente delle loro donazioni spettacolari. Lo si dimentica troppo spesso: sono precisamente questi collezionisti formati tra l’ultimo terzo del XIX secolo e la prima guerra mondiale a essere oggetto nella Germania nazista, e successivamente nei Paesi che la Germania Nazista occupa a partire dalla fine degli anni Trenta, di spoliazioni sistematiche legate alle discriminazioni razziali. Ciò spiega perché le 2mila opere circa in parte sequestrate a famiglie ebree francesi durante l’occupazione, restituite allo Stato francese dopo la guerra, ma non ancora restituite dallo Stato francese agli aventi diritto delle famiglie lese (opere che in Francia vengono chiamate i Musées Nationaux Récupération, Mnr), siano in grande maggioranza oggetti d’arte decorativa, disegni e stampe, arazzi preziosi e quadri di antichi maestri. Leggere il catalogo dei Mnr (e ricordarsi che, oltre a queste 2mila opere, lo Stato francese dopo il 1945 ne ha recuperate dalla Germania altre 15mila che ha venduto a vantaggio dell’amministrazione dei Domaines) consente di fare un’impressionante immersione nella ricchezza e nella qualità delle collezioni private francesi del XIX secolo.
Nel XIX secolo, quando il mercato dell’arte europeo conosce uno sviluppo senza precedenti, il perfezionamento delle ferrovie e la navigazione a vapore, l’accelerazione dei flussi commerciali e la concorrenza delle potenze europee nelle colonie fanno del patrimonio dell’umanità un’importante posta in gioco delle politiche di affermazione nazionale in Europa. La storia dell’arte non è mai stata una scienza neutrale. Allo stesso modo l’etnologia e l’archeologia, come hanno mostrato Alain Schnapp ed Eve Gran Aymerich, si inscrivono all’epoca (e ancora oggi) in contesti politici, diplomatici e militari precisi, dove il turismo e la religione giocano un ruolo crescente.
È la grande epoca in cui i depositi dei musei d’Europa si riempiono di frammenti di papiro e di migliaia di tavolette e cilindri cuneiformi la cui decifrazione è ancora lontana dall’essere completata oggi. Allo stesso tempo l’Impero Ottomano cede agli archeologi delle capitali europee, Germania in testa, vestigia spettacolari del passato greco in Asia Minore: le rovine dell’Altare di Pergamo e la porta del mercato di Mileto, per esempio, lasciano l’attuale Turchia in centinaia di casse di legno per giungere ad arricchire le collezioni d’antichità dell’Isola dei Musei di Berlino, dove sono oggetto di audaci ricostruzioni. Le colonie d’Africa, d’Asia e d’Oceania pagano anch’esse un pesante tributo patrimoniale all’Europa.
Alle campagne scientifiche si aggiungono nel XIX secolo le guerre di conquista e di dominio commerciale. In Cina la Seconda guerra dell’Oppio si finanzia con il trasferimento in Europa di tesori confiscati dalle armate francesi e britanniche nel Palazzo d’Estate di Pechino, i cui pezzi più spettacolari sono esposti nel «museo cinese» dell’imperatrice Eugenia a Fontainebleau. Nel 1897 una tristemente celebre spedizione punitiva dell’armata britannica nel Regno del Benin, a sud dell’attuale Nigeria, segna l’arrivo in Europa di quelli che chiamiamo i bronzi del Benin, che da anni sono oggetto di richieste di restituzione sistematicamente respinte dai musei e dai Governi europei. Sono svariate centinaia di oggetti databili tra il XVI e il XVIII secolo raffiguranti figure umane e animali a tutto tondo, che sono stati sottratti al loro luogo d’origine, trasportati a Londra attorno al 1900, depositati in parte al British Museum e i rimanenti dispersi sul mercato dell’arte, con i musei di Berlino e di Amburgo tra i maggiori acquirenti. Quando i bronzi arrivarono nelle capitali europee intorno al 1900, il Regno del Benin venne presentato come un’«eccezione culturale» nel continente africano; in un articolo tedesco dell’epoca si parlò di «una quasi civiltà». Stupefatti, gli storici dell’arte salutarono in queste opere un virtuosismo che ricordava loro il Rinascimento o il Barocco in Europa. Facevano fatica ad attribuirne la paternità a un popolo africano.
Ma è vero che intorno al 1900 è tutta l’Europa a fare fatica a immaginare che altre culture, altre esistenze, altri desideri esistano indipendentemente da essa. Nelle sue celebri lettere su La Crise de l’esprit Paul Valéry afferma a proposito dell’Europa (siamo nel 1919): «Le altre parti del mondo hanno avuto ammirevoli civiltà […] Ma nessuna parte del mondo ha posseduto questa singolare proprietà fisica: il più intenso potere propagante unito al più intenso potere assorbente. Tutto è arrivato in Europa e tutto ne proviene. O quasi tutto». In materia di accumulazione patrimoniale, questo «tutto» però non è venuto senza resistenza. Dall’antichità «gli spoliati» hanno una voce. Essa è senza dubbio meno facile da cogliere per lo storico europeo rispetto al discorso dei vincitori. Ma questa voce esiste e costituisce, in materia di beni culturali trasferiti, il terreno delle rivendicazioni contemporanee. Alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, il giovane intellettuale egiziano Hasan Tawfiq al-Adl venuto da Alessandria a Berlino annota nel suo diario di viaggio queste parole scambiate con un impiegato del Museo Egizio. «Allora, mi chiede con gentilezza, come li trovate, i vostri tesori, da noi?» «Molto ben presentati, Signore, e avete fatto un grande sforzo per preservare tanta bellezza. Sono contento che siano nel vostro Paese, perché vi ricordiate dell’Egitto. Però, è evidente, è a noi che spetta più legittimamente il diritto di conservarli».
Le tracce precoci di questo concetto si trovano, quando le si cerca, al di fuori dell’Europa. Ma si trovano anche, e in gran numero, nella stessa Europa, in questa Europa «dove tutto è arrivato» e dove l’accumulazione di oggetti preziosi venuti da altrove non ha mai suscitato l’approvazione collettiva e il consenso generale. Dalla fine del XVIII secolo, da Parigi a Londra e da Roma a Weimar, i trasferimenti massicci di beni culturali e la violenza che li sottende provocano reazioni di malessere negli ambienti illuminati. In Inghilterra Lord Byron insorge contro il trasferimento dei fregi del Partenone di Atene in quello che definisce «l’abominevole clima nordico dell’Inghilterra». In Francia Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy attacca violentemente la politica delle depredazioni artistiche del Direttorio in Italia e descrive in pagine ammirevoli la sacrale unità che lega l’oggetto d’arte al suo contesto d’origine: «Non è né in mezzo alle nebbie e ai fumi di Londra, alle piogge e al fango di Parigi, al ghiaccio e alle nevi di Pietroburgo; non è né in mezzo al trambusto delle grandi città dell’Europa, né in mezzo a questo caos di distrazioni di un popolo necessariamente occupato negli affari suoi, che potrà svilupparsi questa profonda sensibilità per le cose belle». Mezzo secolo più tardi Victor Hugo, disgustato dal sacco del Palazzo d’Estate di Pechino, denuncia in una lettera divenuta celebre un crimine perpetrato dalla barbarie europea contro la civiltà cinese. Nel 1920 la rivista «L’Esprit nouveau» pubblica una memorabile inchiesta intitolata «Dobbiamo bruciare il Louvre?». Nel 1923, Paul Valéry, proprio lui, disgustato da una visita allo stesso Louvre, descrive «l’accumulazione di un capitale eccessivo e quindi inutilizzabile» in quella che definisce una «casa dell’incoerenza». E aggiunge: «la nostra eredità ci schiaccia». Due anni dopo, a Berlino, il critico d’arte Carl Einstein compara il museo di etnologia a una gigantesca «ghiacciaia dove giacciono esangui i trofei accumulati dall’avida curiosità dell’uomo bianco». La crisi dei musei che crediamo di diagnosticare oggi è vecchia di almeno un secolo. 


Comunque c’è anche la faccia diurna di questa accumulazione primitiva di capitale culturale nell’Europa dal XVIII al XX secolo. Una faccia di emozioni individuali e collettive, fecondazioni estetiche e cristallizzazioni inattese che sono al centro stesso dell’idea di cultura. Cultura non nel senso bloccato di «somma di conoscenze» ma nel senso dinamico di elaborazione e di costruzione, che la lingua tedesca esprime con «Bildung». Perché nei musei gli oggetti immortali (loro), nell’incrociare di generazione in generazione le temporalità e le preoccupazioni dei mortali (noi), hanno avuto un potere di germinazione che è il potere, interagendo con loro, di generare cose, idee e forme nuove. Parafrasando il motto del Collège de France, si potrebbe dire che nei musei si osserva la cultura mentre si forma. Vi propongo tre esempi:
Nel 1901 Guillaume Apollinaire fa un viaggio in Germania con una famiglia che l’ha assunto per un anno per impartire lezioni di francese a una bambina. Ha vent’anni, non ha alcuna idea di quale sarà il suo avvenire. A Berlino è appena stato aperto al pubblico il Pergamonmuseum. Vi vede una ricostruzione dell’altare di Zeus scoperto due decenni prima da alcuni archeologi prussiani nella provincia di Izmir nell’attuale Turchia. L’altare è ornato da un fregio monumentale: 120 lastre di marmo alte due metri e trenta raffiguranti la gigantomachia, la vittoria degli dei sui giganti, dell’ordine sul disordine. Apollinaire lì davanti scrive, in un misto di entusiasmo di fronte alla bellezza e di ferocia caustica nei confronti dei tedeschi: «Ma quanto è bello! Che magnifico poema di pietra! Gli dei olimpici terrestri, marini e infernali, gli animali, i giganti, i mostri che intrecciano furiosi le membra a volte mutilate, i torsi delle dee si rovesciano sulle braccia degli eroi, facce che si contraggono, bocche che mordono. Quest’opera, che degli artigiani scolpirono nella pietra di grana molto grossa, sente talmente la sua divinità che il viaggiatore, dimenticando la folla di visitatori dai baffi a zanna e di donnette laide, si augura che venga l’ora in cui muggiranno i tori dell’ecatombe». Il testo viene pubblicato dalla «Revue blanche» e segna l’inizio della carriera letteraria di Apollinaire. A Berlino quindi la creatività dei Greci del II secolo avanti Cristo incrocia quella di un giovane uomo un po’ scombussolato, nato a Roma da madre polacca e da padre italiano (sarà naturalizzato francese solo nel 1916). Da questo incontro al museo (e da altri naturalmente) emerge una delle più grandi voci della letteratura francese. 

Contemporaneamente, siamo nel marzo del 1900, il compositore monacense Richard Strauss è a Parigi per dirigere due Concerti Lamoureux. Romain Rolland lo accompagna al Louvre. Entrambi hanno trentacinque anni. Romain Rolland è maître de conférence in storia dell’arte all’Ecole Normale Supérieure. Anche Strauss ha studiato storia dell’arte, ma ormai dirige l’orchestra dell’Opera di Berlino. Rolland annota sul suo diario: «(Strauss) ha un autentico gusto per la pittura, e un gusto alla moda. Ammira molto Chardin (…) Fragonard lo diverte (…) Boucher lo delude un po’. Non è severo con Greuze; ha un po’ troppa simpatia per i paesaggi di Vernet, e riconosce la superiorità del grande Watteau; dice che questo imbarco («Il pellegrinaggio all'Isola di Citera») è una sorta di Märchen-malerei. La felicità e la facilità di vivere che si sprigionano da questo XVIII secolo lo accarezzano piacevolmente». Da parte sua, dopo la visita al Louvre, Strauss scrive nel suo diario: avute delle «idee per un balletto intitolato l’Isola di Citera da Antoine Watteau». E in effetti, nelle settimane e nei mesi che seguono, ben prima che Debussy venga a sua volta colpito nel profondo da Watteau, il giovane tedesco si impegna nella composizione di un’ampia musica da balletto in tre atti intitolata «Kythère» (Opus: AV 230, Trenner 201), rimasta allo stadio di frammenti, ma i cui temi sono stati ritrovati in «Il cavaliere della rosa», «Arianna a Nasso» e «La leggenda di Giuseppe». Per Pierre Rosenberg «Il pellegrinaggio all’Isola di Citera» è «al contempo pausa e azione, un instante e fuori da tutti i tempi». Si potrebbe applicare questa bella formula ai musei in generale: messa in pausa delle opere immobilizzate e imprigionate per sempre nelle vetrine e sui muri e al contempo azione potente, commovente, di queste opere sulle generazioni che passano davanti a esse.
Terzo e ultimo esempio: l’arte egizia del periodo di Amarna nella pazza Berlino degli anni che precedono la prima guerra mondiale. Il periodo di Amarna è un breve periodo di rottura nella storia dell’antico Egitto, quando il faraone Akhenaton (lui) decide di abbandonare gli dei, la capitale politica e i canoni estetici dei suoi predecessori per imporre una nuova capitale, un nuovo culto e una nuova arte. Nel 1912 un archeologo berlinese scopre nel corso di scavi il laboratorio intatto di uno scultore di Amarna. Vi sono conservati attrezzi, modelli, una ventina di ritratti, tra cui quello della regina Nefertiti, e calchi in gesso. In accordo con le autorità francesi, che amministravano allora le antichità egizie, l’insieme viene spedito a Berlino ed esposto nella sua quasi totalità nell’Isola dei musei durante l’inverno 1913-14. Le avanguardie artistiche e la stampa popolare restano di stucco. Il realismo radicale di questi visi usciti dalla notte dei tempi ma che assomigliano così tanto, come si legge nelle cronache di allora, alla gente del 1913, trasformano l’arte di Amarna in oggetto politico. I giornali insistono sul carattere democratico di questa «arte per tutti» che produce forti emozioni persino ai visitatori meno colti. Nel gennaio 1914, i Sozialistische Monatshefte, i quaderni mensili socialisti, spiegano come i visi di Amarna assomiglino a quelli di «persone qualunque incontrate per strada». Che gli uni sono come un «ultimo filtraggio aristocratico» della specie umana, gli altri, i calchi in gesso, sembrano essere stati presi «su dei proletari».
Teste egizie del XIV secolo a.C. arruolate nella lotta di classe dell’Internazionale operaia, un dipinto francese di inizio Settecento che 200 anni più tardi fa nascere della musica, marmi ellenistici di 2mila anni che generano a Berlino un poema d’avanguardia. Le combinazioni e gli esempi sono numerosi, nucleazioni culturali inattese nello spazio dei musei europei. Con una speciale menzione per il panico che attanaglia il pittore André Derain al British Museum di Londra nel 1906. Ha allora 26 anni ed è la prima volta, secondo Philippe Dagen, che un pittore occidentale si sofferma a osservare delle sculture extraeuropee. Una volta rientrato a a casa, Derain passa la notte a scrivere una lettera delirante al suo amico Henri Matisse: «Ho riempito quattro fogli di carta che rinuncio a inviarle. È un tale disordine di idee, un tale caos di sensazioni, di ragionamenti, che davvero mi crederebbe impazzito. […] Sono stato per la quinta volta al British Museum. Qui sono stipati alla rinfusa, mi segua bene, i Cinesi, i Negri, gli Egizi, gli Etruschi, Fidia, i Romani, le Indie. Fui obbligato a uscire talmente avevo le idee confuse davanti a tutto questo. […] Mi sono insinuato in ambiti, in vite diverse dalla mia. Ho quindi allargato la mia coscienza attraverso cose diverse dalle parole. Soltanto sensazioni, definite con, attraverso delle forme, dei colori. […] Non è più un’idea ma è l’idea assoluta, la coscienza dell’essere».
Coscienza dell’essere e gusto dell’altro. Incorporazione della sostanza altrui in sostanza di sé. Decentramento e ricentramento. Senza dubbio il museo è uno dei luoghi dove la «singolare proprietà fisica dell’Europa», per riprendere la formula di Paul Valéry, la sua straordinaria capacità di assorbimento e di assimilazione, si manifestano con forza. Il museo è, o è stato a lungo, lo spazio degli incontri formali con mondi vasti, l’archivio della creatività umana, un luogo dove la storia feconda l’avvenire. Se non temessi l’enfasi e se molti dei musei occidentali non si fossero commercializzati e turisticizzati a oltranza, potrei quasi dire: sono la casa dello spirito.  

Ma che ne è allora dei luoghi dove gli oggetti non ci sono più? Che dire a quelli che, là fuori, sono stati privati dei loro beni dalle violenze o dalle asimmetrie della storia? Come giustificare il fatto che alcuni abbiano accesso al patrimonio di un’umanità da cui altri sono tenuti a distanza, fisicamente ed economicamente? Come sopportare che il capitale simbolico e reale che questi musei generano non sia oggetto di condivisione? Come non volere (da parte dei musei, grazie ai musei, perché ci hanno dato tanto e perché noi abbiamo preso tanto) impegnarsi in una politica più giusta nei confronti delle vittime delle spoliazioni?
Nel 1940, fuggendo dalle persecuzioni naziste, Walter Benjamin diagnostica l’incapacità degli storici tradizionali di entrare in empatia con i vinti. In modo significativo lo fa in uno dei rari passaggi della sua opera in cui si parla di conquiste artistiche e bottini di guerra. Con chi si identifica lo storico quando scrive la Storia? Si domanda Benjamin. Con il vincitore. «Chiunque abbia, fino a oggi, conseguito la vittoria, ha marciato nel corteo trionfale che fa avanzare gli attuali dominanti su quanti sono oggi a terra. Si fa sfilare il bottino nel corteo trionfale, come è stato fatto sempre. Gli si dà il nome di patrimonio culturale. (…) E dato che (questo patrimonio) non è esso stesso esempio di barbarie, non è depravato nemmeno il processo di trasmissione attraverso il quale è passato da una mano all’altra. Noi, gli europei, che abbiamo ricevuto e trasmesso e continuiamo a trasmettere questi oggetti, ci troviamo dalla parte dei vincitori. In un certo senso, anche questa è una eredità che ci schiaccia. Ma non c’è niente di casuale. La buona notizia è che noi, nel 2017, dato che la storia dell’Europa è stata quella che è stata anche per secoli, una storia di inimicizie tra le nostre nazioni, di guerre sanguinose e di discriminazioni faticosamente superate dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo all’interno di noi stessi le risorse per comprendere la tristezza, la collera o l’odio di quanti, più lontani, più poveri, più deboli, sono stati in passato sottomessi all’«intenso potere assorbente» del nostro continente. O per dire le cose semplicemente: ci serve oggi un minuscolo sforzo di introspezione e un leggero passo indietro per entrare in empatia con gli spogliati.
Prendo un esempio francese che parla ai francesi, ma che riguarda tutta l’Europa. Siamo negli anni 1920, la potente America ha assunto la leadership mondiale. A Tolosa un giovane avvocato pronuncia un discorso immediatamente pubblicato e largamente diffuso. Il suo titolo: «L’Elginismo», con riferimento al conte di Elgin, quello dei fregi del Partenone di Atene. Ma l’articolo non tratta né di Grecia né di Inghilterra. Sono l’America e i suoi dollari che tormentano il giovane: «Armato del suo taccuino e della sua kodak, un rigattiere di bassa lega, dai tacchi consumati, coi pantaloni consunti, ha percorso la città e i suoi dintorni. Ha preso nota di tutto ciò che gli sembrava antico e comunicato le sue scoperte al suo corrispondente (a New York). Meraviglie della nostra architettura, universalmente conosciute, visitate e descritte, vengono ogni giorno strappate dal suolo francese per essere esportate verso altri continenti. (Certo) è necessario che alcune delle nostre opere più belle vadano lontano a servire da ambasciatrici del nostro gusto e della nostra civiltà. Quello che, tuttavia, diviene intollerabile, è che con metodo lo straniero venga a sfigurare da noi ciò che il grande Ruskin definisce “l’amato volto della Patria”. Purtroppo! Signori, è questo il triste spettacolo che si qui si presenta davanti ai nostri occhi. Un tempo si distruggeva perché non si sapeva. Oggi si distrugge perché si attribuisce un valore venale a ciò che ha soprattutto un “valore spirituale”. Non andate più a Sens per rivedere la grandi finestre flamboyant del Refettorio dei Giacobini. Queste ariose aperture sono state vendute per 20mila franchi a una signora americana. La porta di Abbeville (…) ha appena lasciato la corte Francesco I per una destinazione sconosciuta. Lo scalone gotico che innalzava in modo così caratteristico i suoi tre piani di boiserie in un cortile di Morlaix si trova oggi, integralmente, in un museo di Londra, tra un proiettore elettrico e un radiatore del riscaldamento centrale. Così, cancellando dalle guide turistiche ciò che non si può più vedere da noi, riscriveremo tutta la storia della nostra arte francese e sarà lunga la lista delle perdite irreparabili che il nostro Paese ha subito». Leggo queste righe e penso al Benin.
Naturalmente, non bisogna confondere tutto. E nemmeno mettere sullo stesso piano lo smantellamento a opera dei fanatici nazisti delle collezioni formate dalle famiglie ebree europee attuato in un contesto di persecuzione razziale e il trasferimento dei musei pubblici d’Italia e di Germania nella Francia rivoluzionaria e napoleonica operato in nome di ideali come la libertà, la pubblica istruzione e il progresso delle arti e del sapere. Né confondere la spoliazione del popolo armeno dopo il 1915 e il rigattiere armato dei suoi dollari che all’incirca negli stessi anni ha battuto le province francesi alla ricerca di affari. Né confondere i sanguinosi saccheggi delle guerre coloniali e le campagne di scavi archeologici del XIX secolo. Lo studio dei trasferimenti massicci di patrimoni, e la questione delle restituzioni ad essi intimamente legata, devono sempre riservare una minuziosa attenzione al contesto storico, politico, culturale, ideologico, simbolico nel quale i trasferimenti si sono attuati, alla singolarità di ogni caso.
Non bisogna confondere ma non bisogna nemmeno aver paura di affrontare i temi scottanti. Di affrontare la storia (a luci e ombre) dei patrimoni artistici nell’Europa dal XVIII al XX secolo, e farlo oggi, da Parigi, da Berlino, da Londra, dal Collège de France, è per prima cosa e prima di tutto intraprendere un lavoro di introspezione che è il primo segnale di amicizia e di rispetto che possiamo dare, mi sembra, a quanti ci hanno arricchiti. L’introspezione non è né flagellazione, né eliminazione, né un confuso precipitarsi a restituire cose a proposito delle quali alcuni forse, anche fuori dall’Europa, pensano che per ora stiano molto bene da noi.
L’introspezione è lo sforzo che consiste, collettivamente, nel ricollegare questi oggetti nei nostri musei alla storia della loro provenienza e alla gente che vive ora là dove questi oggetti erano ieri. È abbracciare coscientemente la parte ingombrante della nostra storia di europei «ai quali tutto è arrivato». È prestare un’estrema attenzione, costante e critica, alle voci di tutti quelli che, all’interno dell’Europa e all’esterno di essa, fanno del patrimonio una questione politica. Insomma, è provare a fare ciò che Achille Mbembe ci propone: «Attraversare (una molteplicità di luoghi) in modo tanto responsabile quanto possibile. Emergeranno allora, con una certa chiarezza, esigenze se non di una possibile universalità, almeno di un’idea della Terra come ciò che abbiamo in comune, la nostra comune condizione». La linea di demarcazione non è tra noi e gli altri. È tra gli immortali (gli oggetti) e i mortali (noi).
 

Bénédicte Savoy, 03 luglio 2017 | © Riproduzione riservata

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