Alessandra Rodolfo
Leggi i suoi articoliProsegue il viaggio nel «Museo infinito». Si conclude, con il Settecento, il nostro viaggio in compagnia di Alessandra Rodolfo, curatore del reparto per l’arte dei secoli XVII-XVIII, e del reparto arazzi e tessuti dei Musei Vaticani.
Era l’anno 1757 quando sulla porta d’ingresso del Museo Sacro, ubicato nelle Gallerie della Biblioteca (visibile nel percorso museale) veniva apposta per volere di papa Benedetto XIV l’epigrafe con le parole «Ad augendum Urbis splendorem et asserendam religionis veritatem», «Per promuovere lo splendore della città di Roma e affermare la verità della religione cristiana», sintesi verbale di quello che sono ancora oggi i Musei Vaticani, esaltante e meraviglioso percorso di storia, arte e fede.
Questo per ricordare che, se la data di nascita dei Musei del Papa è genericamente fissata all’anno 1506, all’arrivo del famoso gruppo scultoreo del Laocoonte, di fatto i Musei Vaticani, come appaiono oggi, iniziarono a formarsi nel Settecento, in particolare tra la fine di quel secolo e l’inizio del successivo quando l’appassionata opera di tre illuminati pontefici, Clemente XIV Ganganelli (1769-1774), Pio VI Braschi (1775-1779) e Pio VII Chiaramonti (1800-1823) diede un volto «moderno» alle raccolte papali.
È, dunque, nel XVIII secolo che per progressiva espansione nascono i musei di oggi. Nel proteiforme estendersi di sale e ambienti settecenteschi appare necessaria una selezione che funga da emblema della raffinatezza ed eleganza di un secolo spesso sommerso da un immaginario collettivo che tende ad appuntare la sua attenzione su più grandi e noti capolavori.
Il primo nucleo moderno di museo inteso come luogo fruibile al pubblico si era andato creando già nella prima metà del Settecento con i Musei della Biblioteca (ancora oggi visitabili), raffinata raccolta costituita da due importanti nuclei collezionistici, il Museo Sacro e il Museo Profano destinati ad accogliere le collezioni antiquariali dei papi.
A questa prima cellula si aggiunse sotto Clemente XIV l’avvio del Museo Pio Clementino, nato con lo scopo di tutelare quel patrimonio di antichità che si era venuto accumulando nel corso del tempo e che si sarebbe accresciuto grazie alla parallela lotta alle esportazioni.
Con il passare del tempo la realizzazione del nuovo museo iniziata quasi in sordina da Clemente XIV assunse con Pio VI, già attivo nel progetto con Clemente XIV in qualità di Tesoriere, dimensioni ben più imponenti divenendo una gigantesca operazione culturale (A. Paolucci) testimoniata ancora oggi dalle grandiose sale del Museo Pio Clementino nate per valorizzare e conservare un’antichità diventata, tramite acquisti e acquisizioni varie, sempre più pervasiva e invasiva.
Il Museo Pio Clementino, il cui nome deriva dai due papi romagnoli che fortemente lo vollero e lo realizzarono, Clemente XIV e Pio VI, nasce e si forma tra il 1771 e il 1778. Il risultato, ancora oggi sotto gli occhi dei visitatori, è un grandioso «contenitore» dell’antico nel cuore della cristianità, il Vaticano, luogo dove si poteva e si può ancora oggi osservare una sorta di antichità ricostruita: la sua storia, la sua religione, la sua arte, la sua architettura.
Iniziato nel 1771 dall’architetto Alessandro Dori che alla sua morte passò il testimone a Michelangelo Simonetti, che vi lavorò nei quattordici anni successivi, il nuovo Museo occupò dapprima gli spazi del Palazzetto del Belvedere di Innocenzo VIII (1484-92) che si erge sulla collina in origine chiamata Mons Sancti Aegidii e il cui cuore era ed è costituito ancora oggi dal Cortile Ottagono, il vecchio antiquario delle Statue di Giulio II.
L’edificio, realizzato negli anni Ottanta del Quattrocento da Giacomo da Pietrasanta su progetto iniziale di Antonio del Pollaiolo, decorato dal Pinturicchio e dai suoi collaboratori, era il luogo di ritiro di papa Innocenzo VIII. Esso era costituito da pochi ambienti tra cui una cappellina con relativa sagrestia affrescata da Mantegna tra il 1488 e il 1490 e una luminosa loggia rivolta verso Monte Mario.
Qui, dunque, iniziò l’operazione con la chiusura della loggia che fu trasformata in Galleria delle Statue. Sculture antiche vennero collocate lungo le pareti come nei Musei Capitolini. Parallelamente, entro il 1773, il Simonetti procedette alla trasformazione dell’antico cortile delle Statue in Belvedere di Giulio II (oggi noto come Cortile Ottagono) che venne circondato da un portico che valorizzasse e proteggesse le sculture esposte.
Tale prima sistemazione museale iniziata da Clemente XIV ebbe una svolta in grandiosità e ampiezza con Pio VI che procedette all’allungamento della ex loggia divenuta galleria delle Statue e all’erezione di nuove e magniloquenti ambienti (Sala degli Animali, Sala delle Muse, Sala Rotonda, Stanza a croce greca, la scala monumentale oggi nota come scala Simonetti, il Gabinetto delle Maschere, la Galleria dei Candelabri) in cui il Simonetti interpretò in chiave settecentesca ma ormai quasi neoclassica la maestosità dell’architettura antica. Poco dopo l’architetto Giovanni Camporese completò l’operazione realizzando l’atrio dei Quattro Cancelli e la Sala della Biga.
Per allungare la Galleria delle Statue venne purtroppo distrutta la piccola cappella del Mantegna. La decorazione delle volte e delle lunette della Galleria fu affidata da Pio VI al pittore tirolese Cristoforo Unterperger nel 1777.
Formatosi nell’ambito del barocchetto nord italiano e austriaco-bavarese, l’Unterperger, artista prediletto di papa Braschi, amico di intellettuali e potenti come il principe Marcantonio Borghese che gli affiderà la decorazione e l’arredo delle sale della sua villa, all’interno di una rete classica interpretata come favola antica e incantata capace di coinvolgere lo spettatore in un mondo lontano con il suo eloquio nobile e epico, fu protagonista e interprete del settecento «vaticano».
Il pittore aveva già avuto modo di lavorare nei cantieri vaticani, e in particolare nella Galleria delle Statue, sotto Clemente XIV per cui qualche anno prima aveva decorato la Galleria dei Busti, il piccolo vano dove era stato collocato la statua del Giove Verospi. Insieme a Raphael Mengs, che dapprima affiancò e poi sostituì nel lavoro, l’Unterperger, qualche anno prima nel 1775, aveva ornato la Sala dei Papiri delle Gallerie della Biblioteca (oggi nel percorso museale), il gabinetto destinato ad ospitare, esporre e conservare la raccolta dei papiri latini.
Quest’ultimo ambiente fu pensato come piccolo museo in cui funzione, forma architettonica e decorazione, secondo principi squisitamente settecenteschi, coincidessero in un’unica, semplice e chiara entità progettuale che comprendesse non solo la decorazione della volta ma anche il rivestimento delle pareti e il pavimento eseguito in «pietra dura».
Il risultato è un ambiente avvolgente, significante nel rimando decorativo all’antico Egitto luogo di nascita dei papiri esposti. Intorno all’Allegoria del Museo Pio Clementino al centro della volta eseguita dal Mengs, l’Unterperger, insieme al pittore Antonio Marini, dipinse così le lunette con San Pietro e san Paolo e due coppie di putti colti nel momento del gioco inquadrandole all’interno di una ornamentazione chiaramente ispirata all’antico Egitto: telamoni di foggia egizia nella cui base compaiono geroglifici, sfingi in finto alabastro giallo, teste di leoni bronzee, foglie di palma. Ne derivò un «ambiente omogeneo per struttura e decorazione, sintomatica espressione della vocazione museale del proprio secolo» (C. Robbiati).
La fiducia nell’artista riposta da Clemente XIV continuò durante il pontificato di Pio VI che gli affidò l’incarico dell’ornamentazione di altre zone del nuovo Museo quali quella dell’attuale Vestibolo Quadrato (già Atrio del Torso e antico ingresso al Museo Clementino) e del Vestibolo Rotondo. Ma l’apice dell’impresa in atto si ebbe con la creazione e decorazione della Galleria delle Statue a cui il pittore lavorò dal 1776 al 1778.
Qui, innestandosi sull’antica decorazione del Pinturicchio, restaurata da lui stesso in collaborazione con il fratello Ignazio, l’Unterperger creò un insieme decorativo omogeneo in cui, «modernizzando» dal punto di vista iconografico le antiche pitture, dispiegò una preziosa e magniloquente glorificazione dell’antico e del pontificato Braschi.
Nella volta come nelle pagine di un libro di storia si susseguono, infatti, i meriti e le imprese del pontificato di Pio VI poste in parallelo con quelle del grande eroe macedone Alessandro Magno mentre nelle lunette la rappresentazione allegorica, tramite coppie di putti muniti di differenti attributi, delle divinità del pantheon romano crea un immediato rimando al mondo antico e alle sculture esposte nella Galleria. Ancora una volta funzione e decorazione venivano a coincidere. Il compendioso programma iconografico, fitto di rimandi e allegorie, trova un interprete eccellente in Unterperger, pittore colto e aggiornato, in grado di infondere nuova vita e nuovo significato ad antichi modelli.
Troppo lungo sarebbe continuare la storia del Museo Pio Clementino e del Museo nel Settecento che conta tanti altri artisti e opere egregie, ma il discorso non può essere concluso senza menzionare la Sala degli Animali e Francesco Antonio Franzoni, un vero protagonista del Museo. È a lui intagliatore del Papa, fantasioso interprete dell’antico, che va il merito di gran parte della decorazione scultorea del Museo Pio Clementino: capitelli intagliati, decine di stemmi papali, cornici, basi di colonne, vasi.
Mettendo a frutto la benevolenza di papa Braschi il Franzoni lavorò ininterrottamente, «con un ritmo quasi diabolico» (A. González-Palacios) restaurando, rifacendo, realizzando. Commerciante spregiudicato, ebbe in Piranesi (con cui secondo Jacques-Guillaume Legrand, biografo dello stesso, collaborò) una fonte di ispirazione che gli insegnò il modo di restaurare le opere antiche completandole secondo la propria maniera, secondo quell’idea dell’antico tutta settecentesca ai limiti per noi oggi dell’inganno e della frode.
Trionfante risultato della perizia tecnica e della fantasia inesauribile del Franzoni è la splendida Sala degli animali, quello zoo di Pietra (G. Spinola) dove opere antiche si alternano alle sculture di animali «restaurate» o realizzate dall’intagliatore stesso secondo una visione poetica e immaginosa dell’antico in cui lo scientismo illuminista trova una sua declinazione artistica. Un bestiario di pietra voluto da Pio VI che il 20 ottobre 1790 si recò personalmente nello studio dell’artista in via della Purificazione per approvare e acquistare per il suo Museo gli animali di pietra.
E per Pio VI, divenuto il suo principale protettore, lavorerà tutta la vita come intagliatore, restauratore, fornitore di sculture antiche e nuove. Tracce di Franzoni sono un po’ ovunque nelle sale. I suoi capitelli sono dei piccoli capolavori di arte scultorea.
Lo aveva notato anche Canova che dieci anni prima, nell’aprile del 1780, si era recato nello studio del Franzoni dove rimase colpito di «certi capitelli di ordine composito di marmo grandissimi, questi avevano ciascheduno gli emblemi del papa ma situati sì bene che non si potrebbe desiderare di più…».
Parole che mi sono tornate in mente quando recentemente è stato compiuto un intervento conservativo realizzato dal Laboratorio di Restauro Pitture e Materiali Lignei dei Musei Vaticani affiancato dal fondamentale supporto del Gabinetto di Ricerche Scientifiche nella volta della Scala Simonetti, raffinata creazione architettonica dell’architetto Michelangelo Simonetti, un tempo elegante accesso al Museo Pio Clementino, oggi vitale snodo nella vita del Museo perché obbligato passaggio per accedere alle Gallerie superiori.
Il 6 agosto 1779 il Diario di Roma riportava la notizia che l’architetto Simonetti ha presentato a Pio VI il modello della scala sostenuta da colonne orientali e coperta di finissimi stucchi, così come compare nell’affresco di Bernardino Nocchi nell’emiciclo del Palazzetto di Belvedere, e come è oggi.
La scala poggia, infatti, su 22 colonne di granito rosso e granito grigio e in parte bigio, alcune provenienti da Palestrina, altre nuove in breccia di Cori, due rarissime in porfido nero di riuso. Queste colonne hanno meravigliosi capitelli franzoniani animati dalla personificazione del vento Boreas con le gote gonfie colte nell’atto di soffiare sul giglio, emblema di papa Braschi.
A questi piccoli ma grandi capolavori si aggiunge la bella decorazione in stucco della volta che presenta al centro lo stemma di Pio VI immerso in una lussureggiante ornamentazione in stucco fatta di fiori, foglie e altri elementi decorativi realizzata dallo stuccatore Giacinto Ferrari tra il 1780 e il 1787. Un saggio di pulitura ha fatto riemergere la raffinata cromia che gioca sui colori tutti settecenteschi del grigio perla o marmo negli aggetti e celestino o grigio cenerino (così recitano gli antichi documenti) nei fondi. Un tassello che ci ricorda quanto arioso, raffinato ed elegante fu il secolo dei Lumi anche in Vaticano.
Altri articoli dell'autore
Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti
Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti
Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti
Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti