Lo Spazio Focus del Centre Pompidou celebra Giorgio Griffa e la generosa donazione di diciotto opere, realizzate tra il 1969 e il 2021, che vanno ad arricchire la collezione del Musée National d’Art Moderne di Parigi. In una piccola quanto efficace e ricca mostra monografica curata da Christine Macel, che già aveva invitato l’artista a prendere parte alla Biennale di Venezia nel 2017, è ripercorsa l’intera carriera di uno dei protagonisti della pittura astratta europea.
Dall’esordio dei «Segni Primari», realizzati dalla fine del 1967, le costanti pittoriche di Griffa appaiono già chiare: colori diluiti, principalmente degli acrilici a base acquosa, segni grafici anonimi su tele grezze fissate direttamente alla parete con una serie di piccoli chiodi, libere dunque di fluttuare accentuando un leggero senso d’incompiutezza. Nella loro radicalità sono opere che catturano fin da subito l’attenzione della critica più sofisticata.
Nell’aprile del 1968, Paolo Fossati, curatore della prima personale dell’artista a Torino, con la lucidità e la sensibilità che lo contraddistinguono, introduce l’opera di Griffa affermando: «Comunque lo si interpreti, dipingere è un atto gratuito[…] Dipingere significa creare un oggetto di cui già esiste il corrispettivo, senza imitarlo né ricalcarlo».
Griffa non intende né imitare, né ricalcare nulla; una delle sue asserzioni più celebri infatti, «io non rappresento nulla. Io dipingo», viene riproposta anche nel 1973 come titolo di una collettiva curata da Maurizio Fagiolo dell’Arco alla galleria Studio la Città di Verona, col tentativo di inquadrare Griffa all’interno della cosiddetta Pittura Analitica. Ma la sua opera travalica ogni definizione; il suo astrattismo non è freddezza geometrica né monocromo concettuale ma è un vero lirismo cromatico, quello stesso che lo differenzia dall’Arte Povera e lo rende impermeabile alla tracimazione della pittura degli anni Ottanta.
La mostra parigina, visitabile sino al 27 giugno, apre idealmente con «Verticale» del 1977, una sottile tela grezza sulla quale l’artista traccia con regolarità delle linee verticali che, iniziando da sinistra s’interrompono col termine del supporto stesso, creando dunque quel senso di sospensione, di costante «non finito» dell’opera che, con una metafora calzante, è stato descritto sovente come il «fermare un pensiero a metà frase».
Oltre a nove opere dei «Segni Primari» (1969-73), l’omaggio parigino presenta anche tre tele della serie «Segno e Campo- Campi Rosa»(1986), «Campo Rosae Campo Viola» (entrambi del 1988), nelle quali la tela diventa un campo d’azione sul quale il colore, autonomamente, delinea delle figure. In «Tre linee con arabesco n.226», invece, una tela di quasi cinque metri di base del 1991, fa la sua comparsa il tema nodale del «numero».
Quando non esposte, le tele di Griffa sono conservate ripiegate e impilate, con la conseguente formazione di pieghe che l’artista mantiene e anzi sfrutta, come una sorta di griglia visiva che soggiace alla pittura stessa. Conscio infine della destinazione della sua donazione, Parigi, città nella quale egli è di casa fin dalla sua personale alla galleria Templon nel 1973, Griffa realizza un’opera interamente dedicata a Marcel Proust: «La Recherche» (2021) si compone di ventiquattro tele trasparenti parzialmente sovrapposte in un apparente disordine.
La mostra si completa di una piccola sezione documentaria che, oltre ad un video che svela le modalità operative di Griffa, tra lunghi silenzi e lente aperture sul suo studio, raccoglie alcune pubblicazioni, a ribadire una delle grandi passioni dell’artista, la produzione di libri: ultimo, solo in ordine di tempo, la raccolta di poesie «Undici cicli di pittura» (Allemandi, 2021).
Chiudono il percorso della mostra tre tele appartenenti al «Canone Aureo» (2010-2012), serie già protagonista nel 2011 di una stanza personale al Macro di Roma. In quell’occasione l’artista rivelava al curatore, Luca Massimo Barbero, il meccanismo della sua pittura, che non intende rappresentare «null’altro che sé stessa» e puntualizzava: «se questi lavori hanno la forza di parlare e di ascoltare, lascio a loro di farlo».