Adriano La Regina
Leggi i suoi articoliLa Regione Abruzzo ha modificato il suo simbolo sovrapponendo ai colori dello stemma e del gonfalone il Guerriero di Capestrano disegnato con linee essenziali da Mimmo Paladino. È oggi per una pubblica amministrazione tanto meritevole quanto inconsueto l’attribuire valore identitario a un’opera d’arte, come facevano le antiche città greche che ponevano sulle proprie monete l’immagine di statue scolpite da grandi artisti. Un convegno tenuto nel Museo di Chieti il 28 settembre, per celebrare i novant’anni dalla scoperta del Guerriero, è servito a riproporre la scultura come tema di indagine sulla base delle conoscenze archeologiche acquisite negli ultimi anni.
Con il ritrovamento del Guerriero, tra le tombe di una necropoli preromana nella piana sottostante il paese di Capestrano nel cuore dell’Abruzzo, si aprivano nel 1934 due nuovi capitoli della storia italica: riguardo all’arte quello della grande statuaria di pietra, fino allora documentata da pochi reperti frammentari; riguardo alla lingua rappresentata dall’iscrizione incisa sulla statua si poneva invece la questione dell’appartenenza etnica. Il nuovo documento si veniva ad aggiungere a uno sparuto gruppo di testi epigrafici rinvenuti nelle Marche e in Abruzzo, allora del tutto incomprensibili.
La scultura del Guerriero, esposta subito a Roma nel Museo Nazionale Romano, fu pubblicata nel 1936 da Giuseppe Moretti, il soprintendente alle antichità di Roma che aveva promosso lo scavo della necropoli dopo il primo ritrovamento. A corredo dell’edizione che trattava degli aspetti archeologici e dei caratteri stilistici, Moretti unì un’appendice epigrafica di Francesco Ribezzo, all’epoca uno dei più noti linguisti italiani. La pubblicazione segnò in modo determinante gli studi che ne seguirono, numerosi e a volte divergenti tra loro. Ha retto bene allo svolgimento delle ricerche l’analisi di Giuseppe Moretti, il quale datava la scultura intorno alla metà del VI secolo, con l’eventuale oscillazione di appena qualche decennio, e l’attribuiva a un contesto culturale sabellico-piceno. Vi vedeva, sotto il profilo stilistico, alcuni riflessi dell’arte greca primitiva con indubbie reminiscenze strutturali del «kouros» e con esperienze mediate dalla circolazione della piccola plastica, soprattutto bronzea. Anche la sua analisi della corazza metallica, delle armi e degli ornamenti, cose tutte meticolosamente scolpite sulla superficie lapidea, non trova obiezioni nella classificazione e nella datazione odierna: discussi sono ancora la natura del copricapo a larga tesa, nel quale Moretti vedeva un elmo, credo a buon diritto, e il riconoscimento di una maschera metallica da difesa raffigurata sul volto della statua, opinione questa volta a mio avviso non sostenibile e non suffragata dagli oggetti reali richiamati a confronto.
Meno felice è stata l’interpretazione di Francesco Ribezzo, che ha esercitato un’influenza deleteria sull’orientamento degli studi. È sua la definizione di «sud-piceno» per il gruppo di iscrizioni, a cui apparteneva anche il testo di Capestrano, giudicate pre-sabelliche e non italiche: esse sarebbero il residuo di «una più larga unità linguistica mediterranea esistente ancora prima dell’arrivo degl’Indoeuropei italici», i quali, sempre secondo Ribezzo, avrebbero invaso le terre abruzzesi nel V secolo a.C. Convinzione, questa, condivisa da Giacomo Devoto, il quale ancora nel 1951 classificava l’iscrizione del Guerriero come «pre-italica» e nel 1967 delineava per essa una nozione, invero alquanto nebulosa, di ambiente linguistico «peri-indoeuropeo», intendendo così una «commistione di elementi destinati a soccombere e di elementi destinati a sostituirsi». Che il nuovo documento contenesse la chiave per rivelare la vera natura della lingua che rappresentava lo dimostrò nel 1958 il glottologo Gerhard Radke, il quale si accorse che il segno a forma di punto non serviva per dividere le parole ma stava a rappresentare la vocale «o». Ciò consentì di riconoscere il verbo «fece» (opsút) di indubbia natura indoeuropea e in particolare italica, anche se non si arrivò, allora, a comprendere il significato del testo.
Nello stesso anno la statua del Guerriero era stata trasferita a Chieti, nel museo che Valerio Cianfarani veniva allestendo per offrire una sintesi rappresentativa della civiltà antica nella regione, a quel tempo ancora unitaria, degli Abruzzi e del Molise, di cui fu illuminato e attivissimo soprintendente. Cianfarani si occupò anche del Guerriero, riuscendo a raccogliere e a presentare nel museo una serie di documenti scultorei i quali lo sottraevano alla solitudine artistica nella quale era stato fino allora confinato, consentendo così di riconoscerne il contesto storico e culturale. Sempre nello stesso 1958 iniziai il mio tirocinio archeologico nel Museo di Chieti, dove sarei poi rimasto negli anni successivi: l’immagine, arcana e possente, del Guerriero fu allora un’esperienza determinante e tuttora attiva nei miei studi. La lunga consuetudine e l’apertura avviata da Gerhard Radke mi consentirono nel 1978 di interpretare gran parte dell’iscrizione; restava ancora da chiarire il senso delle ultime tre parole. Questo mi fu possibile nel 1986, quando arrivai a intendere l’intero testo «me bella immagine fece Aninis per il re Nevio Pomp[uledi]o». La lacuna di quattro o cinque lettere permetteva di integrare il nome solo in Pompulenio o Pompuledio: decisiva fu un’iscrizione latina che, nella zona di Capestrano, attestava il nome Pompulledius. Una lingua paleosabellica, dunque, emerge dal testo di Capestrano, nel quale il personaggio raffigurato compare con un nome bimembre e con una qualifica che ne conferma la regalità, già per sé evidente, a somiglianza dei re sabini di Roma, Tito Tazio, Numa Pompilio e Anco Marcio. Non sorprende infine che Aninis, scultore così originale e di consumata abilità, abbia voluto firmare la propria opera come facevano gli artisti greci della stessa epoca.
Tracce di colore sul corpo, maschera bianca sul viso
La giornata di studi «Il Guerriero di Capestrano fra Italici, Etruschi e l’Europa: contesti e modelli a confronto», svoltasi il 28 settembre scorso nel Museo Archeologico Nazionale «La Civitella», organizzata dai Musei Archeologici di Chieti-Direzione regionale musei nazionali Abruzzo e presieduta da Adriano La Regina, ha dato un impulso notevole alla conoscenza del Guerriero, datato al VI secolo a.C. nel contesto dell’arte italica, sottolineando la sua importanza e autenticità (assurdamente messa in discussione da un film senza alcuna base scientifica) e sviscerandone i molteplici aspetti: dal ritrovamento ai confronti puntuali con guerrieri utilizzati come segnacoli antropomorfi in ambito funerario tra Marche, Abruzzo, Molise e Daunia, ai riscontri nel contesto etrusco e mediterraneo orientale e del centro Europa che hanno contribuito a un inquadramento più ampio, anche dal punto di vista dell’iconografia delle armi e dell’iscrizione sulla scultura.
Sul fronte delle indagini non invasive, molte le novità presentate in anteprima da Silvano Agostini, geologo, e da Oliva Menozzi, direttrice del Caam-Centro di Ateneo di Archeometria e Microanalisi dell’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara, responsabile del progetto multidisciplinare Ars-Archeometria e Remote Sensing per la diagnostica delle Sculture dell’Abruzzo Arcaico (presto sarà online il Museo virtuale delle Sculture arcaiche dell’Abruzzo grazie alle fotografie HD e 3D di Rocco D’Errico). Le indagini hanno consentito di scorgere ciò che non si vede a occhio nudo, come tracce di colore sul corpo e una maschera bianca sul volto, messe in evidenza dalla luce ultravioletta Uv. Inoltre, sul disco-corazza («kardiophylax») presente sulla scultura, sono state individuate tracce di colore rosso, mentre residui di ossido di ferro e di ossido di rame sugli stinchi indicherebbero la presenza di schinieri metallici. Una scialbatura uniforme è ancora presente in diverse zone della statua.
Grazie alle analisi combinate invece, è stato possibile risalire all’utilizzo di piccoli scalpelli a punta piatta e raspe per la lisciatura per la realizzazione della scultura, mentre lo studio a ultrasuoni ha fatto emergere fratture dovute a colpi con strumenti di grosse dimensioni che avrebbero abbattuto il guerriero colpendolo sulle caviglie, da interpretare, ha spiegato Menozzi, come «una voluta defunzionalizzazione probabilmente politica di questa statua simbolo».
[Redazione]