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Mattia Balsamini, «Protege Noctem», 2023 (particolare)

© Mattia Balsamini

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Mattia Balsamini, «Protege Noctem», 2023 (particolare)

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Il buio secondo Mattia Balsamini

L’assenza di luce è metafora di una condizione ribelle all’ideologia dominante, una forma di resistenza. Pertanto la camera oscura è lo spazio dell’apparizione, dove l’immagine emerge nella sua bidimensionalità

Andrea Tinterri

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Il buio è un paesaggio immaginario, è una possibilità evocativa, il buio è una paura o un traguardo a cui ambire. È un cratere all’interno del quale calarsi, una forma di conoscenza o una totale negazione da cui rifuggire. Potrei continuare a contraddirmi senza cedere all’errore, perché il buio è una contraddizione in sé, è quella condizione onnicomprensiva di cui facciamo esperienza alternando terrore e pace. Ed è questa ambivalenza che contraddistingue parte della ricerca di Mattia Balsamini (1987), come nei progetti «Il suo buio speciale» (2022), «Protege Noctem» (2023) e «Blind Spots» (2024). Prendiamo ad esempio quest’ultimo che, nato da una collaborazione con Massimiliano Tommaso Rezza, insiste sulla consapevolezza di una negazione, l’impossibilità di vedersi se non frazionando lo sguardo. Possiamo osservare il nostro volto solo attraverso uno specchio, una possibilità preclusa solo a noi stessi. Un paradosso su cui Balsamini lavora costruendo una sorta di vocabolario della negazione, corpi nudi dove il bianco e nero segnala spazi invisibili. Le forme emergono da un’impossibilità, da un buio che si fa demiurgo: creatore in assenza. La mancanza di luce, in altri casi, è evocata già dal titolo. 

«Il suo buio speciale» è un progetto che racconta un Veneto sotterraneo, lontano dall’ideologia del profitto di un modello produttivo, il cui collasso si è reso evidente con l’avvento del nuovo millennio. Nascono così alcune interviste del giornalista Pietro Minto a scienziati e umanisti, di origine veneta, le cui ricerche si affrancano dalla mera speculazione economica. Ricerche figlie di quel «buio speciale» evocato dal filosofo Agamben: «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio». Balsamini costruisce così dei dittici ritraendo i protagonisti, nel corso delle interviste realizzate su Zoom, appoggiando un foglio di carta fotosensibile al monitor del computer. Il volto appare come traccia fantasmagorica, figura aliena al territorio d’origine, territorio che si palesa nella seconda parte del dittico: una fotografia dell’abitazione della persona ritratta antecedente la fuga dal Veneto. Il buio si fa metafora di una condizione ribelle all’ideologia dominante, una forma di resistenza alla luce ingannatrice. La stessa che sembra minacciare la notte in un precedente lavoro del 2023, «Protege Noctem». 

Balsamini raccoglie un arcipelago di immagini provenienti da luoghi geografici ed esperienziali diversi. Laboratori scientifici, danze di lucciole, scie di satelliti, lupi e skater resistenti alla luce, per raccontare come l’inquinamento luminoso sia ormai un’emergenza ecologica che minaccia l’intero ecosistema. Ogni immagine è un dettaglio di uno specifico processo di ricerca, la dimostrazione di una tesi. Nel testo di Raffaele Panizza, inserito nel libro Protege Noctem (Witty Books, 2023), si ricorda che l’83% della popolazione mondiale non ha mai visto la Via Lattea e che a Shanghai il 95% delle stelle è invisibile a occhio nudo o ancora come la minaccia all’ecosistema notturno danneggi il ciclo circadiano dell’uomo. E la paura della scomparsa del buio non è solo di matrice ecologica ma anche iconografica. La camera oscura, luogo ormai dimenticato, è lo spazio dell’apparizione, dove nel buio le emulsioni lavorano sulla carta e l’immagine emerge nella sua bidimensionalità. E non vuole essere una citazione nostalgica, ma filologica, di come il buio non occulti ma protegga, di come la luce possa minacciare le immagini e ogni nostra possibilità immaginifica. 

Andrea Tinterri, 25 febbraio 2025 | © Riproduzione riservata

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