È il 1978 e Anders Petersen, insieme all’editore Schirmer Mosel, pubblica Cafè Lehmitz, libro destinato a diventare un caposaldo dell’editoria fotografica. Le 88 immagini in bianco e nero che lo compongono sono state realizzate nei dieci anni precedenti in un caffè ai confini della zona a luci rosse nel porto di Amburgo, a partire dalla sera in cui, in un momento di distrazione, la macchina fotografica di Petersen viene utilizzata da alcuni clienti del bar che iniziano a ritrarsi a vicenda.
Meravigliato dalla forza di quegli scatti l’autore decide di fermarsi in città per un mese, prima di rientrare a Stoccolma, tornando poi a più riprese negli anni successivi con l’idea di portare avanti un racconto intimo e partecipe di questo microcosmo sociale. In poco tempo riesce a farsi accettare, restituendo, attraverso i propri scatti, uno spaccato sincero e partecipe dell’umanità intensa e sregolata che ogni sera affolla il locale.
Di fronte al suo obiettivo le persone ritratte si sentono libere di esprimere sé stesse, mettendo in scena le proprie stranezze e lasciandosi andare a comportamenti normalmente considerati inaccettabili, avvolti dal fumo acre e denso che riempie gli ambienti.
Il progetto assume una connotazione inedita nella mostra «Color Lehmitz» allestita a Fotografiska fino al 6 marzo. Curata da Angie Åström, pur presentando le fotografie più note della serie, include infatti scatti mai pubblicati, manipolati dagli interventi manuali con cui l’artista ha rielaborato le sue immagini negli ultimi cinquant’anni.
L’atteggiamento che caratterizza la poetica di Petersen viene qui enfatizzato attraverso l’uso di colore e segni grafici applicati sui provini a contatto, in un dialogo che sacrifica il valore testimoniale del racconto a favore di un’interpretazione a posteriori ancor più intima e coinvolgente.