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Lucio Pozzi
Leggi i suoi articoliIllustratore per bambini, Fulvio Testa si trasforma in artista denso e stratificato
Gli acquerelli non sono grandi. Vengono incorniciati con discrezione classica borghese. La loro più recente esposizione è stata in un’elegante galleria defilata (Jill Newhouse Gallery) al terzo piano di un brownstone, piccolo edificio residenziale, vicino a Madison Avenue. Sono paesaggi immaginari, condensati di memoria e di contemplazione che si articolano per velature e densità e che racchiudono strati e strati di pensiero pittorico. Queste opere mi sembrano un omaggio alla dimensione della rêverie (fantasticheria sognante) descritta dal filosofo francese Gaston Bachelard (1884-1972).
Fulvio Testa (Verona 1947) abita metà dell’anno a New York e metà nella campagna delle colline moreniche mantovane, a qualche chilometro a sud del Lago di Garda. Come molti artisti che non vogliono compromettersi nella corsa del mercato, si è scelto una professione collaterale ma creativa per guadagnarsi il pane. È un provetto illustratore di libri per bambini (recentemente una fiaba di Gianni Rodari, Lo zoo delle storie, Einaudi, e un Pinocchio in inglese, per Andersen Press). Anche in questo campo Testa mantiene un profilo fiero e indipendente. Non si trovano fra i suoi libri i brillanti ma presuntuosi esercizi formalisti che tanti artisti del modernismo hanno mandato ai bambini che regolarmente li trovano tediosi. I colori di Testa sono chiari e piacevoli, le forme sono contenute e danno sicurezza, l’episodio descritto è riconoscibile.
I suoi quadri sono il contrario delle illustrazioni. Qui l’atmosfera dell’aria si mescola con le fumosità del pensiero. Gli acquerelli posseggono la magia degli spazi che si accavallano nell’infinito, i quadri a olio mi piacciono ancor più. Questo solitario produce poco e non si ferma se anno dopo anno non ha condensato il massimo nelle lente pennellate di ogni dipinto.
È impossibile passare in rassegna un quadro di Testa con la fretta. Bisogna fermarvisi davanti e abituare l’occhio come si faceva con l’ombra zen nelle case degli antichi giapponesi. Bisogna forse andarsene e tornare prima che vedute che sulle prime sembravano quasi piatte rivelino la densità dell’aria e della luce e la statica di una variazione si riveli dinamica.
Fulvio Testa non racconta molto di sé. È stato un viaggiatore inveterato, una specie di hippie colto che ha girato il mondo più di quanto si possa immaginare. Conosce innumerevoli persone interessanti con le quali mantiene un dialogo aperto. Tutte le tempeste degli oceani e i silenzi dei deserti si condensano nelle sue pitture segrete, non sempre accattivanti, non sempre consolatorie e certamente non divertenti né ironiche. Un passo metafisico di pensiero visuale e tattile che offre durata.
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