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Petrit Halilaj durante il sopralluogo a Borgata Valdibà, Dogliani © Andrea Guermani

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Petrit Halilaj durante il sopralluogo a Borgata Valdibà, Dogliani © Andrea Guermani

Marta Papini

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Quello che segue avrebbe dovuto essere il primo capitolo della seconda edizione del diario di Radis: quello che racconta l’artista invitato a pensare a un’opera permanente, quando ancora non c’è l’idea per l’opera. Quest’anno invece il capitolo sull’artista chiude il diario: da un lato perché l’opera è stata chiara fin dal primo incontro col luogo che la ospita, dall’altro per raccontare una relazione che è cresciuta in questi mesi tra l’artista, la sua storia e il territorio di Borgata Valdibà e la cittadina di Dogliani. Il primo capitolo del diario della prima edizione di Radis si apriva con le parole di Werner Herzog, citate da Giulia Cenci per spiegarmi cos’era per lei un monumento: «Dopo che gli hai sparato, un elefante si regge sulle zampe per altri dieci giorni prima di crollare». Il monumento come un animale in fin di vita, grande ma vulnerabile, mi era sembrato, e mi sembra ancora, il punto di partenza migliore per ripensare l’opera d’arte permanente nello spazio pubblico. Per il secondo capitolo di Radis, ambientato nelle Langhe, cercavo un artista che, come nella prima edizione, non imprimesse un marchio indelebile su un ambiente già così profondamente segnato dalla presenza dell’essere umano. Cercavo un artista che restituisse profondità e leggerezza, memoria e vulnerabilità insieme, e l’ho trovato in Petrit Halilaj.

 

Petrit Halilaj, Abetare, allestimento, Ph Andrea Guermani

Nato nel 1986 nel villaggio di Kostërrc, in Kosovo, all’età di cinque anni Halilaj si è trasferito con la famiglia nella piccola città di Runik, a pochi chilometri di distanza. «A Runik, i miti antichi e la vita quotidiana si fondono in modi che ho compreso solo anni dopo. È un luogo di immensa bellezza e trauma. È ricco di ricordi di guerra, ma anche dei canti degli uccelli, della dolcezza della famiglia e del mistero delle rovine preistoriche appena sotto il suolo. È lì che la mia immaginazione ha preso forma per la prima volta» ha raccontato. Ancora oggi le sue opere sono un modo per ritornare alle proprie origini, per portare con sé la città e i ricordi della propria infanzia. A causa della guerra in Kosovo, pochi anni dopo Halilaj è stato costretto a scappare da Runik e rifugiarsi in un campo profughi a Kukes, in Albania, dove ha incontrato Giacomo Poli, uno psicologo italiano che lavorava nel campo e grazie al quale ha scoperto il disegno: «Disegnare era come respirare, come volare». Quell’incontro gli ha cambiato la vita: a 18 anni Halilaj si è trasferito in Italia, a Bozzolo, dove Poli e la sua famiglia lo hanno accolto come un figlio e dove ha potuto frequentare l’Accademia di Belle Arti di Brera: «L'Italia mi ha dato tempo e, in molti modi, mi ha restituito il mio futuro». Dopo gli studi Halilaj si è stabilito a Berlino, dove ha appena inaugurato una mostra personale all’Hamburger Bahnhof, la galleria nazionale d’arte contemporanea, intitolata An Opera Out of Time (fino al 31 maggio 2026).

La produzione dell’opera di Petrit Hiliaj «Abetare (un giorno a scuola)», 2025. Courtesy Studio Petrit Halilaj - Bernd Euler GmbHB

Grazie a Radis, Halilaj ha avuto l’occasione di tornare in Italia per pensare la sua prima opera permanente (sono sempre felice di avere una scusa per tornare in Italia, mi ha detto appena atterrato). Insieme abbiamo visitato Borgata Valdibà e scoperto all’interno della scuola in rovina banchi e arredi scolastici del tutto simili a quelli che aveva visto a Runik quando aveva iniziato la ricerca che sarebbe poi sfociata nella serie Abetare: «C’è qualcosa nella prospettiva di questo luogo – morbida, lenta, saggia – che mi ricorda sia il Kosovo che il futuro» ha dichiarato. Per Radis, Halilaj ha dato vita a un’opera che occupa lo spazio lasciato dalla vecchia scuola, ma al tempo stesso apre alla possibilità di ammirare il paesaggio circostante, che prima era nascosto dall’edificio. Abetare (un giorno a scuola) rappresenta una casa stilizzata incisa su un banco da una bambina o un bambino di una scuola di Dogliani. L’artista ha assemblato insieme tubi di acciaio piegati e ritorti per riprodurre fedelmente il disegno, rendendo uno scarabocchio fugace un’opera scultorea e permanente di cui tutte e tutti potranno intestarsi l’autorialità originaria. Come racconta il titolo, l’opera dà vita a una nuova scuola, popolata da creature, scritte e simboli provenienti sia dai banchi delle Langhe sia dei Balcani.

Petrit Halilaj, Abetare, allestimento, Ph Andrea Guermani

«Mi rendo conto che le immagini su questi banchi racchiudono verità che spesso gli adulti non riescono a esprimere. Sono crude, tenere e coraggiose. Ogni volta che visito le scuole durante questi viaggi di ricerca, torno sempre ai disegni incisi o scarabocchiati su questi banchi. Sono ricordi, guide, scintille di inventiva e libertà». Abetare (un giorno a scuola) è un crocevia di segni e figure di diverse aree geografiche, un incontro che diventa una celebrazione gioiosa dell’immaginazione e della fantasia, della libertà e del gioco di bambine e bambini di ogni luogo e di ogni tempo. «L’installazione raccoglie tutti questi disegni intimi, tracce e storie personali e racconta una nuova storia, quasi come un invito a fermarsi e ascoltare prima di creare qualsiasi cosa». Come suggerisce la storia e l’opera di Halilaj, l’arte può essere una forma di gioco liberatorio e al tempo stesso salvare la vita.

La produzione dell’opera di Petrit Hiliaj «Abetare (un giorno a scuola)», 2025. Courtesy Studio Petrit Halilaj - Bernd Euler GmbHB

Petrit Halilaj, Abetare, allestimento, Ph Andrea Guermani

Marta Papini, 05 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

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Il racconto di Petrit Halilaj | Marta Papini

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