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Una scena dal film «The Brutalist» di Brady Corbet

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Una scena dal film «The Brutalist» di Brady Corbet

Il trauma dell’Olocausto nei progetti di László Tóth

L’esilio, la diaspora e l’utilizzo (o la manipolazione) del messaggio dell’architetto ebreo sono alcuni dei temi affrontati nel film di Brady Corbet premiato a Venezia

Alcuni degli edifici più belli degli Stati Uniti sono sinagoghe costruite in periferia. Nei decenni successivi all’Olocausto, un periodo di forte migrazione ebraica negli Stati Uniti e di altrettanto forte migrazione bianca nei sobborghi, le congregazioni ebraiche incaricarono architetti come Erich Mendelsohn di progettare i templi che avrebbero intrecciato le storie dell’Ebraismo del vecchio mondo con il Modernismo europeo trapiantato in America. Non è una sinagoga, ma un centro comunitario che include una cappella protestante, quello che l’architetto Lászlo Tóth (interpretato da Adrien Brody) costruisce in «The Brutalist», il film di Brady Corbet che quest’anno ha vinto il Leone d’Argento per la migliore regia alla 81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (e che sarà nelle sale italiane dal 23 gennaio 2025, Ndr). Ma i suoi alti soffitti in cemento armato sono comunque un intervento alieno per Doylestown, in Pennsylvania. Le lotte di Tóth per realizzare il suo grande progetto parlano del fascino e della diffidenza con cui l’estetica radicale e le tradizioni straniere sono accolte negli Stati Uniti

Al suo arrivo a New York nel 1947, Tóth (omonimo dell’uomo che nel 1972 prese a martellate la Pietà di Michelangelo a San Pietro, Ndr) si stabilisce nel retrobottega di un negozio di mobili di Filadelfia di proprietà di suo cugino (l’attore Alessandro Nivola). Quando riceve l’incarico di riprogettare la biblioteca dell’industriale Harrison van Buren (Guy Pearce), inizialmente lo shock del nuovo è troppo forte. Van Buren (un personaggio ispirato al chimico e collezionista d’arte Albert C. Barnes) odia la biblioteca, con i suoi arredi minimalisti e funzionali, fino a quando non scopre che è stata progettata da un rifugiato che si è formato al Bauhaus. Van Buren apprezza il pedigree di Tóth più che capirne il lavoro, ma diventa il suo mecenate quando i due intraprendono il progetto del centro sociale, un processo difficile segnato da discussioni sul denaro e sul controllo creativo, e colorato dall’ammirazione, dall’invidia, dal sospetto e dalla possessività di un uomo ricco nei confronti del suo artista di corte di etnia diversa. 

«The Brutalist» si conclude con un «flash-forward», saltando decenni di delusioni e trionfi nella carriera di Tóth. Nel finale Zsófia (Raffey Cassidy), nipote dell’architetto, ormai adulta, orgogliosa emigrata israeliana e custode dell’eredità dello zio, pronuncia un discorso in cui contestualizza i suoi progetti come espressione del trauma sublimato dell’Olocausto e dell’esilio. La questione è se credere o meno a questa narrazione. La domanda se crederle o meno è in realtà una domanda su chi possiede la memoria dell’Olocausto, cioè se il sionismo che pervade lo sfondo del film sia o meno, come suggerisce Zsófia, l’espressione del desiderio di Tóth di trascendere la sua sofferenza e di costruire qualcosa dalle macerie del mondo che gli è stato tolto. Più in generale, è una domanda sul lascito degli artisti e sull’utilità o la presunzione della confezione critica, curatoriale e commerciale che reifica la creatività proteiforme, nel bene e nel male.

Una scena dal film «The Brutalist» di Brady Corbet

Mark Asch, 26 novembre 2024 | © Riproduzione riservata

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