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Julia Michalska
Leggi i suoi articoliUno dei più significativi e importanti monumenti all’Olocausto è un documentario-maratona che non presenta né materiale d’archivio, né storici, né corpi. Si tratta invece della testimonianza di colpevoli, vittime e semplici spettatori, frammentata da intense immagini della campagna polacca. Quando Claude Lenzmann girò «Shoah» esattamente trent’anni fa, ruppe non solo con la convenzione del documentario ma anche con le rappresentazioni tradizionali dell’Olocausto. «Credo che il film abbia liberato gli artisti da inibizioni e ansie sulla Shoah, consentendo loro di esprimere i propri sentimenti più profondi nel modo in cui meglio credevano», spiega David Glasser, presidente della galleria Ben Uri di Londra. Il soggetto e la durata del video richiedono molti spettatori, afferma l’artista polacco Wilhelm Sasnal, nato quasi 30 anni dopo la guerra. «Lanzmann ha girato il film per se stesso. Ha preso i fatti e ha trovato un modo per affrontarli. Se non vi piace potete tranquillamente andarvene», sottolinea. Sasnal fa diretto riferimento al film in alcune sue opere, in particolare in «Shoah (Translator)», 2013, il ritratto del traduttore polacco di Lanzmann nel film, e «Shoah (Forest)», 2003, un paesaggio che raffigura tre minuscoli personaggi di fronte a un’imponente foresta dipinta. Il modo in cui Lanzmann ha ritratto il mondo naturale ha fatto capire a Sasnal che «in Polonia nessun paesaggio è indifferente, ogni foresta e ogni campo sono stati testimoni, tutto era intriso di sangue». Secondo Rita Kersting, curatore di arte contemporanea all’Israel Museum di Gerusalemme, il ruolo della natura nel film e il conseguente parallelo con i campi di sterminio nazisti ha trovato eco anche in un’opera più recente dell’artista scozzese Douglas Gordon. La sua video-installazione, «K. 364», 2010, segue due musicisti israeliani che viaggiano in treno da Berlino a Varsavia per eseguire la sinfonia concertante K. 364 di Mozart con un’orchestra della capitale. Le immagini girate dal treno ricordano «le foreste e i prati che ricoprivano le fabbriche dell’orrore dell’Olocausto», afferma Kersting. L’artista polacco Miroslaw Balka, il cui lavoro è stato influenzato dal film, sostiene che Lanzmann ha dato forza a una connessione visiva che era già stata stabilita da Alain Resnais nel suo film del 1955 sull’Olocausto, «Notte e nebbia». Anche se il film di Resnais fu girato solo a dieci anni dalla fine della guerra, «i campi erano già ricoperti di vegetazione e in stato di abbandono», afferma Balka. «Shoah» ebbe un profondo impatto sugli artisti israeliani, ricorda Mira Lapidot, capocuratore del Dipartimento di Belle arti all’Israel Museum. Un aspetto assolutamente innovativo del film sta nel fatto che Lanzmann propone una visione a 360 gradi, afferma Lapidot, presentando «storie, prospettive e persone diverse»; per questo gli artisti israeliani iniziarono a sperimentare modi diversi per mostrare la narrativa dell’Olocausto. «Live and Die as Eva Braun», 1995-97, di Roee Rosen, ad esempio, oggetto di molte critiche quando venne presentato per la prima volta all’Israel Museum nel 1997, rappresenta l’ultimo giorno di Eva Braun con Hitler attraverso più di 66 opere su carta. «Il rapporto con la Shoah non è in termini di linguaggio visivo, ma nel permettere all’osservatore di vedere, attraverso occhi diversi, un aspetto che prima era inimmaginabile», spiega Lapidot. Le atrocità degli episodi terroristici parigini hanno fatto capire che gli ebrei sono ancora dei bersagli. Nonostante i trent’anni di età il film di Lanzmann, purtroppo, è più attuale che mai.

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