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Cristina Valota
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«Così la pensa lo Stato italiano, che infatti tiene la mia categoria lontana dai musei, spiega l’antiquario Fabrizio Moretti. Faccio inaugurare la Biennale di Firenze da Jeff Koons perché credo che l’arte antica non possa che giovarsi dall’accostamento con il contemporaneo»
Dal 26 settembre al 4 ottobre a Palazzo Corsini si svolge la 29ma edizione di Biaf - Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, la prima guidata Fabrizio Moretti, che ha sostituito Giovanni Pratesi nel ruolo di segretario generale. Nato a Prato nel 1976 dall’antiquario Alfredo Moretti e da Kathleen Simonis, a ventidue anni apre la Galleria Moretti di Firenze, cui seguono nel 2005 la Moretti Fine Art Ltd di Londra e nel 2007 la sede di New York, con cui partecipa alle più prestigiose manifestazioni antiquarie in Europa e negli Stati Uniti, dal Tefaf di Maastricht (è l’unico italiano a sedere nel comitato esecutivo) a Frieze Masters di Londra (è membro del comitato), dalla Biennale des Antiquaires di Parigi a, ovviamente, la Biennale di Firenze. È vicepresidente dell’Associazione Antiquaria d’Italia e membro della Federazione Italiana Mercanti d’Arte, dell’Associazione Antiquari Fiorentini, del Syndicat National des Antiquaires francese, della Confédération Internationale des Négociants en Oeuvres d’Art, della Society of London Art Dealers e della British Antiques Dealers Association. Insignito nel 2004 del titolo di Chevalier de l’Ordre des Art et des Lettres, Fabrizio Moretti non disdegna incursioni nel mondo dello spettacolo: dal 2006 al 2012 ha partecipato ai programmi di Piero Chiambretti «Markette» e «Chiambretti Night» come opinionista su argomenti d’arte e cultura. Lo abbiamo intervistato.
Leggendo la sua biografia, impressiona il livello dei risultati raggiunti in relazione alla sua giovane età. Immagino che l’esperienza di suo padre sia stata fondamentale.
Devo tanto a mio padre ma, per quanto riguarda la mia attività di antiquario, sono stato io ad aver creato la mia galleria, il mio gusto e il mio stile. Non ho rilevato la galleria di famiglia, perché mio padre, che era un mercante «all’ingrosso» che comprava alle aste e vendeva ai mercanti, ha cessato l’attività sei anni prima che io cominciassi, quando avevo quattordici anni. Ho sì ripreso in mano la collezione di mio padre ma non i contatti dei suoi clienti o dei fornitori. Devo però dire che mio padre forse non mi ha insegnato il mestiere al 100%, ma mi ha lasciato i sani principi della vita: pur venendo quasi dal niente (era contadino mezzadro nella Valdichiana), è riuscito, senza istruzione, a costruirsi una carriera nel mondo dell’arte e mi ha trasmesso l’amore per la semplicità delle cose, per la campagna. Soprattutto mi ha insegnato a non classificare mai le persone per il loro stato sociale e a saper stare con tutti.
Quindi ha deciso lei di diventare antiquario?
Da giovane non volevo assolutamente fare il mercante d’arte, ma il cavaliere di concorso ippico. Allora ero totalmente indifferente al lavoro di mio padre; poi, per una serie di coincidenze, ho cominciato ad accompagnare un suo amico e mi sono innamorato del mestiere dell’arte, che adesso è diventato per me una vocazione. Ora, per me questa non è una professione bensì una ragione di vita. Ma non escludo, in futuro, di smettere di fare il mercante d’arte in questa maniera; forse tra un po’ deciderò di farlo privatamente. Un grande antiquario, Fabrizio Apolloni, diceva che è più semplice fare il mercante d’arte che lavorare: è vero, questa professione non è un lavoro semplice, perché non ci sono né domeniche né vacanze, ma io sono felicissimo di fare questo perché per me l’arte è un antidepressivo. Però, sono convinto che non morirò mercante d’arte, come lo sono oggi, ma in mezzo all’arte.
È di queste settimane la polemica tra storici dell’arte italiani circa lo spostamento, spesso ritenuto pretestuoso se non addirittura dannoso, di opere d’arte antica da musei italiani in mostre considerate di dubbia qualità. Altro tema discusso, l’eccessiva presenza, in mostre pubbliche, di opere provenienti da botteghe di antiquari. Qual è il suo parere?
Penso che si debbano fare delle mostre intelligenti, che abbiano un solido schema filologico e al tempo stesso che le attribuzioni delle opere esposte non siano forzate, che i lavori provengano da musei o da collezionisti. Non vedo niente di male nell’esporre opere di un mercante con un’attribuzione giusta, se quell’opera è utile alla mostra. Ovviamente, come in tutti i settori, ci sono mostre di serie A e altre di serie B. Ad esempio, la mostra più bella che ho ammirato quest’anno è «Arte lombarda. Dai Visconti agli Sforza» curata da Mauro Natale (cfr. «Vernissage» n. 168, mar. ’15, pp. 4-5, Ndr): penso sia la più sofisticata del 2015 e quindi ha forse il limite di rivolgersi solo agli addetti ai lavori. Sono convinto che ci vogliano sia mostre per gli intellettuali, come questa di Milano, sia mostre rivolte al grande pubblico, perché il ruolo più importante degli operatori del mondo dell’arte è quello di far conoscere l’arte a chi non la conosce, come fa il Getty Museum di Los Angeles che, comprando le opere più rappresentative di un artista, costruisce una collezione capace di «educare» chi non potrà mai andare in Europa o in altre parti del mondo. Bisogna trovare una via di mezzo. Le mostre troppo sofisticate a volte non le capisco nemmeno io!
Nel caso di una compravendita, dove finisce la tutela e dove inizia il legittimo diritto al guadagno di un mercante?
Ho una mia teoria circa le acquisizioni da parte dello Stato: dovrebbero interessare solo opere che fanno parte del patrimonio e di cui si conosce la provenienza. Lo Stato cioè deve comprare solo quello che ha una connotazione storica importante, perché purtroppo siamo pieni di opere che non riusciamo a gestire e a esporre. Ad esempio, nel 2008 lo Stato ha acquistato da me una delle due tavolette con frati domenicani provenienti dalla «Pala di San Marco» (smembrata a causa delle dismissioni napoleoniche, Ndr), la pala dell’altare della chiesa di San Marco di Firenze, l’attuale Museo di San Marco, che il Beato Angelico aveva dipinto tra il 1438 e il 1443 su commissione di Cosimo de’ Medici (l’altra tavola è stata acquistata dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e concessa in comodato gratuito al museo fiorentino, Ndr): se non si fosse saputo da dove proveniva, forse lo Stato non avrebbe dovuto comprarla. In quel caso, tolte le spese, ho guadagnato il 10%, una percentuale bassa se si pensa al grosso capitale investito per un mercante, però, trattandosi di Stato, ci si mette anche una mano sulla coscienza...
Una fiera deve avere un valore didattico oppure no?
Le fiere sono fatte per vendere! Però, considerato che i mercanti che espongono ad esempio a Maastricht o a Frieze Masters sono tutti di primo livello, mi aspetto che costruiscano il loro stand come fosse la piccola stanza di un museo. Pensando alla Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, mi auguro che chi espone lì lo faccia con un progetto ben preciso; so di mercanti che hanno comprato cose proprio per esporle in quell’occasione. Ad esempio, ci sarà un gruppo di mercanti tedeschi che allestirà una piccola mostra dedicata all’arte italiana, mentre Tornabuoni dedicherà lo stand agli anni Sessanta del ’900. Tante volte capita che alcuni mercanti portino opere che non sono in vendita per creare uno stand che funzioni bene e non trovo nulla di sbagliato in questo. Secondo me, in questo tipo di mostre che rappresentano l’eccellenza del mercato dell’arte, è meglio trovare esposto un capolavoro che non è più in vendita ma che si potrebbe o che si poteva trovare sul mercato dell’arte piuttosto che un quadro modesto in vendita.
Da anni ormai antiquari e fiere di antiquariato accostano arte antica e contemporanea. La stessa Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze sarà inaugurata da Jeff Koons. Chi se ne giova di più? L’arte antica o l’arte contemporanea?
L’arte va vista a 360 gradi e non credo che si debbano alzare pareti tra antico, moderno e contemporaneo. Come è scritto fuori dalla Gam di Torino «Tutta l’arte è stata contemporanea» (è un’opera di Maurizio Nannucci, Ndr). Quando ho cominciato, io ero contro l’arte contemporanea perché ero un ragazzo fondamentalmente ignorante, poiché non vedevo oltre l’arte antica. Ora che mi sono aperto un po’, ho capito che l’arte contemporanea va interpretata in relazione al tempo storico per il quale è stata creata. La questione deve essere la qualità: come nell’antico, dobbiamo scegliere i più bravi.
Come Jeff Koons?
Innanzittuto Koons è anche un collezionista di arte antica e quindi era importante riuscire a portarlo a Firenze, dove avrà anche una mostra a Palazzo Vecchio. È stata un’idea del sindaco Dario Nardella, presidente della Biennale e uomo molto vicino alla cultura: me l’ha chiesto e l’ho invitato. Penso che sia la prima volta al mondo che un artista contemporaneo di tale livello inaugura una biennale di antiquariato. Mediaticamente mi sembra perfetto.
Ma allora a chi giova?
Credo che ne tragga giovamento l’arte antica, che è sottovalutata rispetto all’arte contemporanea. Quindi se un collezionista guarda all’antico, si rende conto che con gli stessi soldi può comprare un’opera di qualità. L’importante è cercare sempre il massimo in entrambi i settori.
In effetti la sproporzione di prezzo tra antico e contemporaneo, quest’ultimo sempre più caro, è notevole. Perché?
Dipende dalla richiesta. Attualmente ce n’è di più per opere moderne e contemporanee.
Perché l’arte antica è meno richiesta?
Innanzitutto perché attualmente non c’è la possibilità di creare mercato con l’arte antica. Se mi si chiedesse di organizzare una mostra in galleria di 30 opere del pur prolifico Luca Giordano, forse, a fatica, riuscirei a mettere insieme 10 suoi dipinti. Oppure se domani mi chiamasse per dirmi: «Senta Moretti, se mi trova un Botticelli autografo, le do 50 milioni di dollari», io non saprei dove trovarlo! Picasso ha un mercato importante perché ha creato tanto, tra opere belle e meno belle: è un brand, come Andy Warhol. Invece non c’è materiale di livello per creare un mercato importante nell’antico. Tanti mercanti di contemporaneo sostengono i loro artisti alle aste; al contrario, quando mai si è visto un mercante di antico che alle aste sostiene gli artisti che ha? Mai, perché non c’è un mercato.
Però l’arte contemporanea ha raggiunto prezzi da capogiro.
Federico Zeri diceva che un quadro che costa più di un miliardo, che potrebbe equivalere a un milione di euro di oggi, è un insulto all’umanità. Forse aveva ragione, però il mercato oggi è così e per quanto ingiusto, lo dobbiamo accettare. Però credo che chi ha i mezzi dovrebbe fare in modo che l’arte sia fruibile a tutti, perché l’arte è un bene dell’umanità e chi ha grandi collezioni deve metterle a disposizione una volta ogni tanto al pubblico, deve fare donazioni.
Lei ne fa?
Cerco di finanziare monografie per gli storici dell’arte che in Italia non riescono a trovare lavoro e, quando posso, finanzio restauri di opere pubbliche, come recentemente la «Visitazione» di Pontormo di Carmignano. Il mondo dell’arte è affascinante, ma non aiuta gli storici dell’arte, che sono invece una categoria importantissima. Oggi i giovani storici dell’arte nel nostro Paese, se sono fortunati, trovano lavoro nelle Soprintendenze. Ma spesso finiscono a fare i custodi nei musei.
È vero che collezionare arte antica richiede maggior cultura, mentre l’arte contemporanea è per lo più una tendenza modaiola, di ricchi e arricchiti?
In alcuni casi purtroppo è vero, perché c’è chi compra opere solo pensando di fare speculazione finanziaria e questi sono certamente i più volgari. A me, quando viene chiesto un consiglio su come investire i soldi e su che cosa comprare, rispondo di giocare in borsa o comprare immobili, perché secondo me l’arte va comprata per passione. Infatti chi ha comprato senza progetti di speculazione ha riunito importanti collezioni e chi voleva speculare, non so quanto effettivamente abbia speculato. Le opere d’arte vanno comprate, in primis, perché piacciono. Certo, l’arte contemporanea è molto più facile: Andy Warhol è più facile, mentre un Rothko è già più sofisticato. Ma Warhol è un’icona, e certamente un hedge funder conosce più Warhol che Cima da Conegliano.
Lei colleziona?
Sì, colleziono tutto, dall’antico al contemporaneo al moderno. Sono un appassionato mercante e quindi guardo tutto.
Che cosa compra di arte contemporanea?
L’ultimo acquisto importante è stata una «Gazing Ball» di Jeff Koons. Recentemente ho acquistato anche un dipinto di Michaël Borremans, un belga figurativo di primissimo livello.
Progetti per il futuro?
Cerco sempre di migliorarmi e capire di più. L’arte è una sfida e ogni giorno si conoscono cose nuove. Nonostante io sia partito dal periodo che amo di più, ossia il Rinascimento e il Manierismo, e da quella che i francesi chiamano l’«arte primitiva del Trecento», oggi amo il Sei e il Settecento, fino ad arrivare ai giorni nostri. Anzi, forse le vendite più belle nella mia vita riguardano proprio questi periodi, come nel caso del dipinto «Canal Grande a Venezia da Palazzo Flangini a Campo San Marcuola» di Canaletto che ho venduto al Getty Museum di Los Angeles nel 2013. Ma mi piace molto anche il contemporaneo.
Non pensa di abbandonare l’antico per dedicarsi alla vendita di opere d’arte contemporanea?
Credo che pubblicamente farò sempre il mercante di dipinti e sculture antiche e per quanto riguarda il moderno e contemporaneo, lo collezionerò o tratterò dietro le quinte!
Le piacerebbe dirigere un museo?
In un’altra vita certo che mi piacerebbe, così come mi piacerebbe anche essere un curatore in un museo importante. Ma non mi chiameranno mai, perché io ho fatto il patto con il diavolo: sono un mercante! Invece in America e in Inghilterra il mercante è tenuto in grande considerazione anche perché collabora con i musei. Io ho la fortuna di collaborare con tanti musei internazionali e sono un donatore del Metropolitan, al quale ho destinato tre quadri. Mi piace lavorare con le istituzioni. Ma purtroppo in Italia il mio mestiere è visto come un modo per arricchirsi, depauperando il patrimonio, invece i bravi mercanti aiutano la ricerca.
E invece fare il Ministro dei Beni culturali?
Credo di non essere adatto a fare il politico perché non amo i compromessi e nemmeno sottostare a regole non giuste. L’Italia può fare ancora molto nel settore dei Beni culturali, che non sono ancora totalmente sfruttati, ma credo anche che quando uno va a sedersi al tavolo dei bottoni, come mi disse una volta Antonio Paolucci, «pigia i bottoni ma capisce che i bottoni non funzionano».
Ha qualche suggerimento da dare al ministro Franceschini?
Innanzitutto deve cercare di snellire tutta la burocrazia, oltre a rivedere l’intera legislazione dei Beni culturali. Una critica che posso fare, ma non a Franceschini, è che in Italia non esiste un database, un elenco delle opere notificate. Quindi un collezionista potrebbe acquistare inconsapevolmente un quadro notificato, chiederne l’esportazione, ottenerla e commettere un reato.
Da settembre 2016 la Biennale des Antiquaires di Parigi diventerà annuale. Pensa di fare altrettanto anche alla Biennale di Firenze?
A Parigi in questo modo si vuole rafforzare il ruolo della Biennale e contrastare altre manifestazioni come Frieze Masters. Riguardo a Firenze, non lo so; è un’idea che mi frulla nella testa, ma devo prima parlarne con i membri del comitato. Abbiamo bisogno di tanti soldi che fatichiamo a ottenere.
In futuro farà una Fondazione con la sua collezione?
Se non avrò figli, lascerò tutto a chi ha bisogno. Ad esempio, essendo uno dei pochi mercanti a credere che non si possono contrastare le case d’asta, ho chiesto a Sotheby’s di poter curare un’asta, che si è tenuta lo scorso gennaio, con oggetti provenienti da me o da terzi: parte degli introiti è andata alla mia fondazione (Fondazione Fabrizio Moretti, Ndr), un centro ippoterapico per i bambini disabili. L’arte deve servire a questo. Sono contentissimo di aver messo a disposizione un quadro che mi ero comprato dodici anni fa e che tenevo tutto per me, e che oggi grazie a quel dipinto comprato dall’amico Marco Voena tanti bambini sfortunati sorrideranno.
Immagino che per le expertise, oltre alla sua cultura e al suo intuito, si avvalga anche della collaborazione di studiosi e storici dell’arte di fiducia: può dirci chi sono?
Ovviamente ho un gruppo di persone, di storici dell’arte che lavora a stretto contatto con me. C’è sempre un confronto, anche se la prima idea è la mia. Ma io non sono certo Federico Zeri: a volte la mia idea può essere giustissima, altre volte sbagliatissima. Se si tratta di un pezzo proposto a un’asta, devo essere pronto a comprarlo a molti soldi e quindi prima devo fare delle ricerche, ma tante volte si compra senza interpellare nessuno, si compra a occhio e poi si vede: dipende dalla situazione. Certo che se devo comprare un quadro molto caro, mi avvalgo del parere di altri: non è che posso comprare un quadro che è di Giovanni Bellini perché lo dice Fabrizio Moretti! Altrimenti si tornerebbe al mercato di primo Novecento, quando il mercante faceva lo storico. Credo molto nella ricerca intellettuale degli oggetti e quindi nel confronto, soprattutto con gli storici dell’arte rinascimentale, che sono tutti miei cari amici. Spesso subisco un gioco del «perfido» Andrea De Marchi, che mi manda su Whatsapp immagini di particolari di dipinti, chiedendomi l’attribuzione. Lo scambio intellettuale è fondamentale, quindi diffido di quei mercanti che dicono: «Faccio tutto io, scopro tutto io». Il mercante deve fare il mercante.
Ci sono differenze tra collezionisti stranieri e collezionisti italiani di arte antica?
Il collezionista d’arte italiano è un «perverso»; non a caso, i più grandi collezionisti sono stati italiani, a parte poche eccezioni, come Alvaro Saieh, con il quale ho la fortuna di collaborare per la collezione Alana, e di consigliarlo. Lui è forse il più «perverso», perché ama l’opera a 360 gradi: compra le opere perché gli piacciono, compra i grandi nomi ma anche i piccoli maestri perché ne capisce l’importanza storico-artistica. Ma in generale il collezionismo internazionale richiede soprattutto i grandi nomi e i grandi quadri, che ormai sono i più difficili da trovare. Al contrario il collezionismo italiano, quello che io ho potuto vivere poco perché a causa di questa crisi finanziaria è morto, cercava anche l’artista locale. Il collezionista bresciano comprava opere di Giacomo Ceruti; quello milanese comprava i milanesi. I signori Fava, ad esempio, hanno costruito una bellissima collezione di artisti ferraresi, nati a Cento, perché quella era casa loro, ossia hanno fatto quello che facevano le Fondazioni bancarie, cioè cercare di portare a casa gli artisti che avevano fatto grandi i loro luoghi, il loro paese. All’inizio io ho venduto tantissimi quadri alla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca: Gian Domenico Lombardi, Maestro di San Davino, Pompeo Batoni. Era bellissimo il clima che si respirava in Italia e che purtroppo è finito.
Quindi il collezionismo italiano non esiste più?
Se non cambia la legge per cui oggi non c’è la libera circolazione di moneta, il collezionista italiano ha paura di comprare. Perché un collezionista deve comprare un’opera in Italia con il rischio che poi gli venga fatta un’ispezione fiscale? Speriamo che l’Art Bonus, consentendo vantaggi fiscali, promuova l’investimento in opere d’arte.
Non le è mai capitato di essersi lasciato sfuggire un capolavoro perché non riconosciuto?
Lo ammetto, è successo, anche se i mercanti non vogliono mai parlare delle loro sconfitte. Ho «perso» tantissimi capolavori, ho sottovalutato alcune cose, altre invece le ho trovate.
E di aver venduto un’opera particolarmente a malincuore?
Purtroppo a volte è successo. Spesso, quando vendo quadri belli, non ho la gioia dell’incasso ma la tristezza della perdita.
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