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Kitsch in pompa magna

Lucio Pozzi

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Dovrei essere entusiasta dell’arte di Matthew Day Jackson (1974, Panorama City, California). Si tratta di un’impresa che rientra nel programma Gesamtkunstwerk, termine inventato nel 1827 da K.F.E. Trahndorff e propugnato dal compositore Richard Wagner dal 1849. Gesamt significa Globale, Totale; Kunst significa Arte; Werk significa Opera. È un concetto che si è infilato nel Movimento Moderno in maniera particolarmente benefica, in contrasto assoluto contro la specializzazione generata dall’industria e dal commercio. Il movimento internazionale di Arts and Crafts, la Secessione Viennese, l’avanguardia russa prerivoluzionaria, e infine il Bauhaus l’hanno assorbito a fondo. Si tratta di evitare di rinchiudere l’attività in una formula limitata, di applicarsi a ogni compito come parte primaria del tutto, di evitare le gerarchie, di allargare lo sguardo a tutto il contesto che circonda la propria opera.
Jackson è arrivato nel mondo dell’arte alla grande. In pochi anni si è conquistato una posizione preminente. Quest’autunno espone nella potente galleria Hauser & Wirth di New York. Ha esposto con Mario Diacono a Boston nel 2006 e 2007. Nel 2011 se n’è vista una grande retrospettiva al MAMbo di Bologna. Le opere? Variano da uno scaffale con sopra una serie di forme che da un alberello si trasformano didatticamente nella testa di un uomo a teche fantascientifiche nelle quali in un complicato gioco di specchi si intrecciano anatomie vere e distorte, luci laser, diagrammi ossessivi. Ci sono automobili trasformate, baccelli da viaggio spaziale, una pietà di Michelangelo fotografata con l’iPhone, passata nel computer e ricreata da un cyberprogramma di riproduzione tridimensionale e fatta con spazzatura e cemento. Sono cose di grandi dimensioni.
È un corteo di gigantassonomia che passa dal frammento di legno bruciato allo straccio vecchio all’alluminio lucido agli schemi cibernetici. Jackson si diverte e al contempo medita sulla morte e la tecnologia, sul corpo e la natura. Fa sembrare altri grandi acrobati della trasformazione come Jeff Koons, Damien Hirst e Matthew Barney come dei purissimi semplificatori riduttivisti. Ma non lo sento come un pompier quanto costoro. C’è qualcosa di davvero impegnato in quest’artista. Non c’è il calcolo furbo di colui che ha studiato i manuali dell’avanguardia e la spiaccica ai quattro venti per i creduloni che hanno bisogno di spenderci dei milioni per credere di essere gente d’arte. Eppure, eppure … Dopo averne scannerizzato con occhio e mente le opere, non mi resta molto. Cerco di capire le ragioni che mi causano questa mancanza di entusiasmo. Come mai non ci sento l’ispirazione inspiegabile che cerco nell’arte? Mi conviene passare al forse. Forse è il suo gusto da rustico mistico del West americano, tipico deterioramento del fai da te dei pionieri. Forse sono le scorie della cultura fumettistica. Forse è la pompa magna della sua banalità. Forse è il suo gusto. Ah, ecco, proprio il gusto che cambia da generazione a generazione e da cultura a cultura. Malgrado l’impresa da arte totale da me abbracciata per decenni, l’elegante kitsch di Jackson non corrisponde al senso concentrato che cerco io. Quando io tento di tuffarmi nel cattivo gusto per sfidarmi a reinventare la mia arte non ci riesco quanto uno che là, nel lontano baraccone del West ci è nato, figlio disneyato di televisioni e libertà esistenziali da ferrivecchi sempre all’orlo del disastro. Il fantasma delle fantasie di Jules Verne permea la mia lettura di quest’arte. Come i film di neo ottocentismo archeotecnologico tratti dalle sue storie o come la serie dei Sherlock Holmes, i suoi prodotti sono ben finiti e costano molto a fabbricarli. Mi manca però il margine di mistero che i temi da lui scelti vorrebbero rappresentare, perché le opere li congelano in soltanto buoni manufatti, fantastici ma a me non sufficienti.

Lucio Pozzi, 23 febbraio 2015 | © Riproduzione riservata

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