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L’Orlando innamorata

Anna Costantini

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È una storia di amore e di sfida quella di Susanna Orlando, gallerista da quarant’anni prima a Forte dei Marmi e poi a Pietrasanta. Una storia iniziata per affermare se stessa e continuata fino ad oggi per sincera passione

Il 21 maggio, nello spazio di via Stagi di Pietrasanta, una mostra di carte di Piero Pizzi Cannella dal titolo «Canto ritrovato», con opere dedicate al «Cantico dei Cantici», apre i festeggiamenti voluti dalla Orlando per questi quattro decenni di attività. Seguono, dal 4 giugno, una mostra dello scultore Girolamo Ciulla, «Milestone» a cura di Valerio Dehò, allestita presso l’Hotel Byron di Forte dei Marmi; il 9 luglio, di nuovo in galleria a Pietrasanta, la rassegna «Quarantanniealtro» con opere di Gianfranco Baruchello, Giuseppe Chiari, Lucio Del Pezzo, Pino Deodato, Aldo Mondino, Giacomo Piussi e Giò Pomodoro, tutti artisti che hanno collaborato con la galleria, e gli artisti scelti dal curatore Lorenzo Bruni, tra cui Marco Raparelli, Regan Wheat, Andrea Carpita ed Eugenia Vanni.

Infine, il 27 agosto si inaugura una personale dell’artista fiorentino Lorenzo Lazzeri. Una stagione che è un regalo a se stessa e alla sua tenacia di figlia «d’arte» in cerca di indipendenza. «Come figlia di genitori separati ero molto legata a mio padre, racconta Susanna Orlando, avrei fatto qualsiasi cosa per stargli vicino e lo seguivo a Forte dei Marmi dove dal 1968 aveva aperto un’altra galleria, oltre a quella di Firenze». Ma anche a Firenze la decenne Susanna seguiva il padre, per esempio negli studi degli artisti.

Signora Orlando, ritiene che la scelta di diventare gallerista sia stata una strada inevitabile, tracciata da un padre così importante per lei?

Credo che per i primi anni l’influenza di mio padre sia stata inevitabile. Ma il mio modo di lavorare, come si conferma ancora adesso, è il risultato di una passione personale, di una sensibilità verso l’arte tutta mia. Iniziai nel 1976 occupandomi del piccolo spazio di via Carducci al Forte, una volta il magazzino della galleria dove mio padre stivava opere di Guttuso, de Chirico e Rosai. Dopo tre anni di studi in giurisprudenza, mentre avevo già capito che volevo fare la gallerista, sono stata per un anno da un cugino negli Stati Uniti, una sorta di fuga da casa. Nel 1985 ritornai e mio padre mi cedette la licenza dello spazio di via Carducci e da allora questo è il mio mestiere.

Sono stata formata da mio padre da un punto di vista commerciale, mi ha insegnato i trucchi del mestiere, poi mi sono costruita una mia esperienza, grazie anche a un collega a cui devo molto, Claudio Poleschi. Poleschi capì il mio potenziale e mi spinse a conoscere le opere di artisti più giovani e interessanti. La svolta vera, sempre grazie a Poleschi, fu quando realizzai il primo catalogo, in occasione di una mostra personale di Pino Deodato, dando il via alla collana di piccolo formato «Opere preziose» che ha caratterizzato la mia attività. Per me il catalogo resta fondamentale, è la traccia teorica dell’evento.

La collana rispecchiava la singolarità del suo spazio. Non deve essere stato facile confrontarsi con una dimensione così particolare, anche per gli stessi artisti. Ma forse la dimensione è stata un punto di forza della sua attività...

La galleria era «grande» due metri per sette. È stata una vera scommessa. Credo che sia stato anche questo aspetto a farmi sviluppare doti inconsuete perché in così pochi metri quadrati doveva aver luogo tutto. Presentavo opere che non si potevano neanche guardare da lontano, non c’era lo spazio. In compenso, gli artisti dovevano creare le loro opere apposta per il luogo. Ricordo che Aldo Mondino voleva dividere lo spazio in tre parti e l’ha riempito di colori e di dervisci ovunque. Essere così «particolari» è stata in effetti una fortuna perché in questo modo ho creato una sorta di mito. Quando ho sentito di aver raggiunto lo scopo, mi sono spostata a Pietrasanta, dove sono diventata una «vera» gallerista.

Com’era il mercato di metà anni Ottanta a Forte dei Marmi e com’è cambiato, secondo lei, oggi?

Quando ho iniziato, nel 1985, erano anni buonissimi, anche se in realtà a me è sempre piaciuto far spendere poco alle persone, preferendo coinvolgerle e appassionarle. Ricordo che mio padre mi dava dei disegni di Sironi che appena esposti si vendevano immediatamente a cifre importanti. Tuttora Forte dei Marmi è così. Quando io ho iniziato a lavorare, l’arte contemporanea era una nicchia, quasi non esisteva. E così è stato per vent’anni, più o meno. Oggi la situazione è completamente rovesciata, nel bene e nel male. La gente è più preparata, più esigente, l’informazione sull’arte è molto più diffusa, basti pensare a internet, e questo distilla il mercato. Rimane però la domanda di fondo: come facciamo noi galleristi a fare il nostro lavoro? Il mercato è floridissimo ma non è più nelle nostre mani, noi prendiamo le briciole, non siamo di moda. Sono gli artisti oggi a essere di moda. 

Tre anni dopo il trasferimento da Forte dei Marmi a Pietrasanta qual è il suo bilancio?

In realtà a suo tempo ho fatto una scelta folle. Ho lasciato il lusso per la cultura. Ma Pietrasanta in questi anni è diventata un vero e proprio «fenomeno», oggetto anche di studio dall’estero. Un centro naturale, nato spontaneamente con l’arrivo di galleristi provenienti da ogni parte d’Italia. Ho spostato qui il lavoro perché già ci abitavo e perché avevo bisogno di spazio. Pietrasanta mi «chiamava», c’erano già parecchi colleghi. I collezionisti che incontro a Pietrasanta sono molto puntigliosi, dei veri collezionisti. A Forte dei Marmi non c’erano collezionisti, piuttosto persone di gusto. Molto spesso non sapevano che cosa stavano comprando e io accompagnavo le loro scelte.

Anna Costantini, 18 maggio 2016 | © Riproduzione riservata

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